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Intervista "ibrida" a Marco Nardini: no solid information. |
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Fusione propositiva di due postazioni di rete, nell’intento di intercettare i flussi brulicanti di informazioni interconnesse, senza limiti di redazione, senza confini prestabiliti, verso una contaminazione costruttiva tra strutture di pensiero distanti. Tre poli cognitivi, orientati dalle proprie personali percezioni, indagano le estensioni dell’architettura nascente: quasi a random Giacomo Airaldi - www.archandweb.com - e Paola Ruotolo - www.eartmagazine.com - esprimono a Marco Nardini, ricercatore del settore, i propri interrogativi sulle “tecnologie d’avanguardia nella progettazione contemporanea”.
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Paola Ruotolo - e-ART:
1. Da quando ho letto il suo libro sogno una “fresatrice digitale” che m’insegue. A parte gli scherzi, ho trovato il suo scritto “Dietro le quinte. Tecniche d’avanguardia nella progettazione contemporanea”1 esaustivo e coinvolgente, direi praticamente indispensabile per comprendere a pieno i mutamenti del linguaggio architettonico contemporaneo. La parete sembra evolversi verso la funzione di membrana di connessione, “worldgate” di passaggio e fusione tra dimensioni diverse, moltiplicando il luogo e quasi annullando la propria accezione secolare di separazione di ambienti. Peter Eisenman nel suo progetto per la Chiesa dell’anno 2000 s’ispira alla “mutazione dell’ordine molecolare del cristallo” nella fase di “sospensione fra la stasi del solido e i flussi di uno stato liquido”. Bernhard Franken dona al padiglione Solar Cloud “una forma dinamica ottenuta per simulazione delle forze fisiche di due gocce nell’atto del fondersi”. Come spiega questo desiderio di “transizione”? Esso è conseguenza o anima motrice dell’uso di nuovi mezzi di indagine, progettazione e realizzazione del manufatto architettonico? Marco Nardini: (R) Innanzitutto ti ringrazio per l’apprezzamento, mi fa un gran piacere sapere che nei miei scritti venga percepita un’attenzione per il digitale che non è costituita di pura erudizione tecnica. Come progettisti oggi ci troviamo a dover fare i conti con mutamenti complessi tanto nel modo di progettare, quanto nella stessa disciplina della progettazione. In più oggi mi sembra che siamo al centro di un guado. La “materia” digitale è quello che furono il ferro e l’acciaio all’inizio del XX secolo: non solo un nuovo materiale ma anche un nuovo modello espressivo, di cui, allora come oggi, non si conoscono ancora, appieno, le potenzialità. Quando ho iniziato ad interessarmi al digitale nel progetto sentivo l’esigenza di spiegare, per primo a me stesso, che cosa, di questa tecnologia, sarebbe penetrato nella cultura della progettazione. L’architettura, per me, è la “costruzione” dello spazio architettonico, uno spazio tanto percettivo quanto evocativo e simbolico. Ecco che allora l’idea di transizione dello spazio, da sempre connaturata nel concetto stesso di spazio architettonico, ha trovato, secondo me, nel digitale un alleato formidabile. Tuttavia questo aspetto della “transitorietà” e mobilità spaziale cozza con la percezione che abitualmente abbiamo di architettura. E’ come se il modo di considerare la transizione appartenesse ad un grado superiore di problemi di cui, attraverso gli strumenti tradizionali del pensare il progetto, non si possa essere in grado di apprezzare la vera complessità strutturale. E’ per questa ragione che gli strumenti digitali diventano strategici, per aprire delle nuove porte di accesso al modo di concepire lo spazio nel quale viviamo.
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Giacomo Airaldi - Arch&Web: 2. L’architettura ha per secoli avuto una qualità fondamentale la “materialità” oggi sembra che alle componenti materiali si vadano ad aggiungere, grazie al digitale e alle tecniche di avanguardia nella progettazione, qualità immateriali che arricchiscono la percezione e la fruizione dell’architettura. Trasparenze non solo materiche, ma un significato esteso di trasparenza che racchiude mille varianti, dall’indeterminatezza alla metaforizzazione, dalla mutevolezza alla complessità. Ugo Rosa recentemente su Arch’it, in un suo interessantissimo scritto , afferma: “A me pare (…) che, rimarrebbe meno concretamente percepibile: la nostra fede in quell 'eterea nube che chiamiamo realtà, nonostante, momentaneamente, nessuno dei cinque sensi ne sia interessato. (…) Proprio come l'architettura secondo Lafcadio Hearn sembra avere “L'identica sostanza delle nuvole”” e continua: “Cos'ha a che fare quel segno che noi tracciamo sulla carta, cos'hanno a che fare questi fogli o questi puntini colorati che compongono figure su uno schermo, con ciò che infine chiameremo architettura "costruita"? Nulla: materia differente, dimensione differente. Altra sostanza. Noi dovremo chiamare architettura queste pietre o quei segni? Né le prime né i secondi, forse. Piuttosto qualcosa che ci sfugge e che possiede, appunto, solo la sostanza delle nuvole” Non è che oggigiorno confusi e confortati dal digitale pensiamo che questa sia una qualità “nuova” dell’architettura ma forse è la più antica ed importante? E’ la vera essenza del lavoro creativo dell’architetto o del designer, il grado zero? Cosa ne pensa? Marco Nardini: (R) Sono perfettamente d’accordo: l’essenza di quello che noi chiamiamo “architettura”, che potremmo anche chiamare habitat (cioè la domanda di qualità spaziali psico-percettive consone alle esigenze umane) non cambia, nel tempo. Cambiano semmai le risposte a questa domanda di qualità ambientale, che si arricchiscono di nuove modalità. Tuttavia il concetto affascinante di meta-stabilità, che nella nuvola, come nell’architettura, tende a smaterializzare le percezioni, può essere anche, per converso, percepito come perdita di senso del ruolo stesso dell’architettura, rispetto alle specifiche funzioni di accoglienza che le sono proprie. Non vorrei intraprendere un ragionamento sociologico ma credo che sia importante riflettere sul rapporto che c’è tra la cultura e la società, in particolare nel suo sostanziarsi in un modello economico e politico di convivenza. E’ questo, secondo me, il grado zero, per l’architetto, per il designer, come per ogni abitante della terra. Credo che la creatività abbia un valore in quanto contributo insostituibile, e propriamente umano, alla vita sul pianeta. Per questo nel lavoro progettuale non si può prescindere dal ritenersi una parte di quel complesso organismo che è il mondo in cui viviamo: fatto di materialità e immaterialità, di razionalità ed emotività. Con la consapevolezza che, come affermano gli scienziati della complessità, “il tutto è molto più della somma delle singole parti” (scusate la citazione!).
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Paola Ruotolo - e-ART: 3. Quali strumenti concreti hanno i giovani architetti per appropriarsi di queste nuove sperimentazioni? Quali sono le università italiane che conducono significative ricerche in proposito? Quali gli insegnamenti che dovrebbero essere ritenuti fondamentali per una preparazione attuale e consapevole all’ingresso nella competizione internazionale? Marco Nardini: (R) Secondo me oggi le giovani generazioni hanno la necessità di appropriarsi dei nuovi strumenti. Tenendo presente che: - l’Università nella quale studiano sta cambiando, per cui agli studenti sarà sempre più necessario assumere un atteggiamento costruttivo e partecipativo per formare un profilo conoscitivo adatto alle esigenze che dovranno spendere nel mondo del lavoro; - la formazione sarà sempre di più un processo continuo, che non s’interrompe con il raggiungimento del titolo di studio; - gli strumenti tecnologici richiederanno competenze complesse che, il più delle volte, travalicano i confini tradizionali delle discipline, per come le conosciamo oggi. Premesso questo credo che la principale carenza dell’istituzione universitaria italiana sia proprio legata alle competenze scientifico-tecnologiche diffuse. Siamo sempre stati abituati a concepire due settori separati del sapere (scientifico e umanistico) e questo è diventato un modello culturale di riferimento che, però, ha ben poco a che fare con la realtà del sapere. Comunque mediamente lo studente italiano, architetto, ingegnere, designer, è più versatile e creativo di un suo collega europeo, e questo in una condizione operativa che alle volte è spaventosa per le difficoltà e la scarsità di risorse. Secondo me bisogna comprendere il valore di questo che, con terminologia che non amo, si definisce “capitale umano” e che costituisce la vera eccellenza delle nostre strutture di alta formazione. Per rispondere alla tua domanda voglio raccontare la mia esperienza. Nel mio percorso di docente, come in quello di designer, ho assisitito, negli ultimi dieci anni, all’emergere di nuove competenze e nuove discipline nel settore della progettazione. Io stesso mi sento di aver portato, nel mio settore disciplinare, un contributo d’innovazione anche in termini di contenuti metodologici e strumentali. Direi che la triade innovazione tecnologica – sostenibilità – multimedialità racchiude in sé il complesso delle nuove discipline della progettazione, su cui quasi tutte le Università italiane hanno aperto dei nuovi campi disciplinari didattici e di ricerca. Tuttavia questo gruppo di conoscenze costituisce un insieme che trova il suo pieno compimento solo nell’interazione con un terreno fertile da un lato nel settore della ricerca, dall’altro rispetto all’ambito produttivo. Voglio dire che le esperienze più proficue sono quelle che riescono a sposare la formazione universitaria con la ricerca e la produzione. Del resto l’efficacia dell’innovazione è legata alla possibilità operativa di metterla in pratica e di migliorarla in un processo continuo. Dal punto di vista didattico la costituzione di strutture laboratoriali di lavoro, soprattutto nel settore della modellazione e della prototipazione, credo che diventi un passaggio obbligato per un reale aggiornamento disciplinare della progettazione, sia essa architettonica, urbanistica, nel disegno industriale o nella grafica. Come giustamente accennavi nella domanda il referente a cui ci si deve rifare è quello del contesto internazionale perché uno dei nostri maggiori difetti è quello di essere troppo concentrati sul nostro specifico e di guardare poco al contesto internazionale dove, viceversa, siamo apprezzati e dove potremmo trovare validi apporti. Per non diventare “periferici” bisogna rendersi disponibili, sempre di più, a compagini di lavoro internazionali e multi-disciplinari.
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Giacomo Araldi - Arch&Web: 4. Rileggendo sempre Ugo Rosa ho trovato questo suo pensiero: “Non è impensabile che un giorno la fase disegnativa possa essere eliminata e il progetto prendere corpo, in forma d'ologramma a dimensioni reali, direttamente sul posto della costruzione. È anche immaginabile che in un futuro neppure lontanissimo, attraverso sensori adeguati, l'architetto possa muoversi al suo interno, prendere visione dei materiali che man mano va scegliendo, toccarli, sentirne la grana, la consistenza. Ipotizzabile che egli manipoli in sito l'opera e che, una volta definito, il progetto (ma in tal caso non sarà, forse, neppure più adeguato parlare di "progetto") possa essere concretizzato dai costruttori come attraverso uno stampo. Senza alcun disegno, semplicemente seguendo punto per punto l'ologramma fino a materializzarlo.” Vorrei sapere cosa ne pensa di questa visione un ricercatore del settore, forse più attento ai trend in atto. Se veramente in un futuro potesse essere così quale senso avrebbe la nostra figura professionale? Marco Nardini: (R) Io credo che il pensiero di Rosa delinei un’idea del progetto concepito sempre più come “simulazione” della realtà. Questo comporta alcuni cambiamenti nello statuto del progetto: lo sviluppo delle fasi progettuali in modo che interagiscano le une con le altre, l’ingegneriazzazione come parte integrante del progetto, l’esplicitazione di modalità attraverso cui le funzioni sono collegate alle forme. Di certo questo porta ad una ridefinizione del ruolo del progettista, che diventa un soggetto multi-disciplinare che si riferisce ad una diversa modalità conoscitiva dell’oggetto e che si concretizza in un’interazione tra ambiti che siamo abituati a considerare separati (visual e industrial design, architettura, ingegneria, arti visive). E’ di certo un cambiamento di prospettiva, di cui però non bisogna avere paura. Mi viene in mente la figura di Leonardo da Vinci che, per ingraziarsi i favori di Ludovico il Moro, si descriveva come tecnologo, progettista di fortificazioni, sperimentatore e, alla fine, pittore. Voglio dire che il progettista futuro sarà, secondo me, sempre più uno sperimentatore “…non influenzato da un’arbitraria ed empirica accademia, ma da appropriati strumenti di previsione, in grado di formulare catene logiche adatte ad individuare forme architettoniche e connessioni unitarie…”, come affermava Luigi Moretti, in un suo articolo del 1972 sulla rivista “Spazio”. Un rapporto integrato tra metodi e progettista che oggi ci appare evidente, ma che procede con continuità da almeno un cinquantennio.
Bernhard Franken - Solar Cloud - 1999
Paola Ruotolo - e-ART:5. Non crede che quest’architettura ad “alta densità tecnologica” sia destinata per il momento unicamente ai grandi studi associati? Non è forse anche la diffusione e l’economicità di un’idea a renderla realmente attuabile ed universalmente accettata? E’ possibile fare una previsione dei tempi di effettiva assimilazione di concetti spaziali così complessi su scala più capillare? Lei ritiene che il pericolo di emulazione della forma esteriore in assenza di contenuti propositivi, in questo caso, sia maggiore del secolo scorso? Marco Nardini: (R) Non credo che l’architettura ad alta densità tecnologica sia esclusivo terreno dei grandi studi per una ragione semplicissima, la tecnologia contemporanea punta ad una pervasività totale. Oggi, a differenza che nel passato, la tecnologia è davvero “incorporata” nella materia, e questo processo sarà sempre più esteso e, direi, invisibile. Tra dieci o quindici anni non faremo più distinzione tra caratteristiche fisiche dei materiali e tecnologia dei materiali, perché la tecnologia non sarà altro che una configurazione della materia. E’ ovvio che in un mondo a due velocità i benefici saranno limitati a gruppi e settori ristretti, ed è questo il vero pericolo: che la differenza tra chi è ricco e chi è povero, anche in termini di “densità tecnologica”, diventi una frattura insanabile, oltre ad essere una palese ingiustizia.Mi ha colpito una frase di Hal Foster che, in “Design and Crime”, afferma che nell’architettura, come nel design, siamo in presenza “…della trasformazione delle trasgressioni in routine”. Come ho scritto più volte questo mi sembra il vero pericolo del digitale, un’emulazione inconsapevole e ignorante della tecnologia, che è la sua stessa dissoluzione. La perdita del valore d’innovazione ed il suo utilizzo come semplice macchina scenografica.
Bernhard Franken - Solar Cloud - 1999
Giacomo Airaldi “Arch&Web”: 6. Spesso nei suoi scritti sull’immateriale si sente parlare di media-ambiente. Può illustrarci cosa intende e soprattutto quali valenze estetiche questa sua definizione ha sull’habitat dell’uomo che lo fruisce. Quali connotazioni ecologico ambientali lei da a questa “specie di spazio”? Quali analogie con il Cyberspazio e con lo Spazio delle reti comunicative? Marco Nardini: (R) Parlo volentieri del media-ambiente, che è uno degli “attrattori” della mia ricerca. In generale è difficile oggi fissare una linea di confine tra quello che è reale e quello che è virtuale. In particolare, nell’architettura, tra quello che, nel virtuale, fa parte dello spazio e quello che non ne fa parte. La diffusione degli strumenti multi-mediali e delle reti, non solo nella progettazione ma anche nella costruzione dell’architettura, tende a far emergere nuove idee d’ambiente, conformate dalla presenza dei media. Il confine delle differenti delimitazioni disciplinari, sempre più dinamico ed erratico origina, di fatto, un cambiamento di stato nelle attività e nelle funzioni della progettazione. Ecco che allora gli edifici acquistano un carattere di macchina pensante, come nel caso del Trans-Port 2001 di Kas Oosterhuis, dove la funzione di polo informativo urbano viene assolta da un contenitore mutante, in grado di variare la sua forma in base al numero di persone che vi entrano. L’interno dell’edificio non è più costituito di pareti, soffitto, pavimento ma è un continuum sul quale vengono inviate informazioni sotto forma d’immagini, testi o filmati. Va sottolineato come questo complesso formato dall’architettura dell’edificio e dalla sua struttura informativa non è, e non può essere, un elemento prestabilito solo in sede progettuale, ma si forma sulla base delle richieste dell’utente, rilevate attraverso sensori, in un rapporto di azione-reazione molto simile al funzionamento di un organismo vivente. In questa mutazione del concetto di linguaggio la figura architettonica non si materializza più attraverso gli strumenti evocativi e analogici della tradizione, legati a segni univoci e determinati, ma sterza verso l'utilizzo di grandezze fisico-percettive e digitali (ricombinabili e trasferibili) come altrettanti strumenti di traduzione della forma. Seguendo l’assioma per cui le nuove forme debbono essere “mediatizzate”, cioè veicolate attraverso nuovi strumenti di comunicazione. In questo modo i concetti di oggetto, edificio e territorio non vengono più percepiti come pure entità fisiche ma divengono prestazioni, basate su sintassi e tecnologie fondamentalmente immateriali. Si passa dunque da un determinismo progettuale ad un’indeterminatezza controllata. Ad un habitat in cui lo spazio inverso, quello immateriale, acquista un’importanza sempre maggiore. Come fattore osmotico liminare, come paesaggio intermedio, come spazio-interfaccia. E’ un’inversione della spazialità architettonica, dove il vuoto “solidificato” è molto più importante del pieno e dove il rapporto tra spazio reale e suo duplicato digitale offre l’opportunità di ampliare continuamente il campo del progetto in nuove regioni, mix di reale e virtuale. Anche l’assetto formale dell’edificio non è più un dato necessariamente predefinito: in questi mix-building la forma incorpora e comprende il fruitore nel progetto figurativo dell’architettura. C’è d’aspettarsi che al progettista, sulla base di queste nuove opportunità, siano offerte delle occasioni espressive inusitate in termini di spazi progettati e realizzati. In un certo senso, concentrandosi sulle caratteristiche di efficienza dell’habitat e di efficacia delle soluzioni tecnologiche adottate, l’architetto può realizzare un’antica aspirazione della progettazione, quella di concepire lo spazio piuttosto che la forma geometrico-spaziale che lo contiene (l’edificio). E’ dunque l’apertura di un nuovo ambito della progettazione, orientato ad una maggiore indeterminatezza e adattabilità del progetto. Forse è presto per dirlo ma una tecnologia in grado di risolvere, a costi relativamente contenuti e sostenibili, la quasi totalità dei problemi legati alla costruzione, realizzazione, manutenzione del manufatto, ha prodotto indubbiamente un effetto: quello di spostare gli interessi (e le problematicità) di chi progetta sulle questioni del controllo di un livello ambientale complesso. Rispetto all'ambiente (ma forse sarebbe meglio chiamarlo, appunto, media-ambiente) gli stessi materiali costruttivi debbono assimilare un certo livello di intelligenza comunicativa. Questo dato appare sempre più come una via ormai intrapresa che comporterà un progressivo allontanamento dal concetto tipologico-funzionale (e normativo) tradizionale, per lasciare spazio ad un concetto di performance dell’ambiente che potrebbe diventare un nuovo criterio di definizione della qualità in architettura.
Bernhard Franken - Solar Cloud - 1999
Paola Ruotolo - e-ART: 7. Cosa pensa del rapporto tra forma e resistenza dell’oggetto freeform? Marco Nardini: (R) Gli oggetti free-form, come i blobjects (binary large objects), sono il risultato di un’interazione tra una legge di variazione geometrica e la sua incarnazione fisica nella forma. Del resto tutti rimaniamo colpiti dalla somiglianza che hanno alcune forme, proposte in maniera pressochè indistinta da architetti e designer: dalle poltrone, come la Alufelt Chair di Mark Newson (1993), ai blobject abitabili come il padiglione-goccia per la BMW di Bernhard Franken (2000) o l’Experience Music Project di Frank O. Gehry (1995-2000). Tuttavia il fatto interessante è che questi concetti geometrici sono resi possibili da “motori” delle forme che permettono di determinare, controllare e realizzare tali oggetti. La geometria topologica (in particolare quella NURBS, che permette di esplorare geometricamente forme elastiche basate sul calcolo), il modello strutturale (lo schema spaziale geodetico, o quello a reticolo di sezioni, che permettono di organizzare il sistema delle sollecitazioni che agiscono sull’oggetto), l’analisi e modellizzazione del comportamento dell’oggetto fisico (in generale potremmo indicarle con il termine di simulazione, nelle sue varie accezioni), sono i tre fattori che determinano il rapporto tra la forma e l’oggetto reale e, in senso più vasto, tra l’idea e la sua materializzazione, sia essa in forma di oggetto o in quella di edificio.
Studio Interzona - Praga - 2001
Giacomo Araldi - Arch&Web: 8. Possiamo ormai affermare che le discipline del progetto ( dall’architettura, al design alla pianificazione territoriale) hanno avuto un ampliamento concettuale grazie alle tecnologie informatiche. Si sente parlare di approccio multidisciplinare e soprattutto della simulazione come un nuovo strumento teorico di supporto e di verifica . Cosa pensa della cultura del melting pot ? Spesso si parla di “rivoluzione geometrica” e leggendo i suo scritti sembrerebbe però limitativo vedere in questa "rivoluzione” soltanto l'affermarsi di una "estetica delle superfici curve". Può spiegarci meglio questo concetto? Marco Nardini: (R) Secondo me tutti gli aspetti che abbiamo trattato finora, che per semplicità vengono indicati come altrettante “rivoluzioni” (geometrica, multimediale, telematica, e via discorrendo) in realtà si riferiscono ad un modo di concepire la tecnologia che forse non corrisponde alla realtà del mondo contemporaneo. Oggi la divisione netta tra scienza e tecnologia non esiste più, o almeno non è più in relazione sequenziale (scienza-tecnologia) come poteva essere anche soltanto trent’anni fà. Anche se questo può sembrare un fattore marginale rispetto alle discipline progettuali io credo che l’impatto di questa complessificazione del concetto stesso di tecnologia comporta dei grossi cambiamenti nel modo di progettare e di pensare l’idea. Ho la sensazione che vedremo il dispiegarsi di questa evoluzione nei prossimi vent’anni in un uso creativo e consapevole delle tecniche d’avanguardia. Ne dò un profilo nel mio libro Design virtuale. Il digitale nel progetto (Mattioli1885, 2003), mettendo in luce come gli strumenti dell’innovazione incarnino sempre di più il concetto stesso di progetto, fino a confondersi a vicenda in un’idea di progetto inteso come innovazione. Non voglio esprimere un giudizio di valore su questo punto ma ritengo che questo sia il nocciolo problematico: il concetto di progetto come innovazione. E su questo tema che ci si dovrebbe confrontare, tenendo presente che non ci sono risposte definitive.
Greg Lynn - H2 House - 1996
Paola Ruotolo - e-ART: 9. Natura e artificio, reale e immateriale, scienza ed esperienza: quali sono le affascinanti implicazioni che è necessario valutare nella teorizzazione di questa nascente “architettura liminare”? Marco Nardini: (R) Il mio lavoro ha due punti di riferimento, due limiti d’oscillazione: la cultura dell’innovazione e la cultura dell’ambiente. Io credo che per riflettere sull’architettura e sul design, nel mondo contemporaneo, non si possa prescindere da considerare ambiente e innovazione come parti integranti di un unico orizzonte culturale. Il punto d’incontro del sapere scientifico con quello umanistico. Non credo allo specialismo oltransistico, anche se ritengo fondamentale che la formazione di un progettista sia basata su una solida conoscenza scientifica e, soprattutto, logico-metodologica. Detto questo provo un senso di disagio a leggere certe teorizzazioni sull’architettura contemporanea. Credo che oggi abbiamo bisogno di una “teoria pratica”, newtoniana, direi; fatta di concetti chiari e ben argomentati, anche se complessi. Dove ogni affermazione sia misurabile e verificabile, anche se esposta in modo affascinante. Altre argomentazioni mi sembra che nascondano il baco dell’architettese, che spesso cela sotto belle parafrasi un vuoto di significato e, nel migliore dei casi, una profonda ignoranza se non addirittura un opportunismo modaiolo.
NOX
- "Blow Out" - 1997
Giacomo Airaldi “Arch&Web”: 10. Antonio Saggio nella prefazione “Il come” al suo ultimo testo afferma che i più giovani “hanno nel computer non un’arma in più, ma semplicemente l’arma principale per pensare e costruire”. Mi trovo fondamentalmente d’accordo su tale affermazione ma, riallacciandomi alle domande precedenti e ad una sottilissima vena provocatoria che ho stranamente (non è da me!) innescato nelle domande di questa intervista, al di là dell’indispensabile questione del “come” quali ritiene che siano i fondamenti della disciplina progettuale? Quali i capisaldi teorici? Ricordo un suo scritto dove afferma che “tutto è design” in quanto vede nella nascita e nell’evoluzione dell’industria design l’integrazione positiva tra il percorso creativo e quello produttivo dovuto non solo alle innovazioni tecnologiche ma ad una “nuova sensibilità”. Può spiegarci cosa intende o intravede? Marco Nardini: (R) La tecnologia ha sempre avuto un ruolo importante nel trasformare la nostra visione delle cose e, per estensione, nell’attribuire dei significati alla realtà che ci circonda. In particolare le discipline progettuali, pervase dalla presenza-preponderanza delle info-tecnologie, si stanno modificando tanto nei metodi quanto nelle pratiche creative. Bisogna tenere presente che la diffusione del digitale tende a far emergere l’idea di un “nuovo visibile” del progetto, che si avvale degli strumenti dell’innovazione per rendere intellegibile un nuovo vocabolario, nuove grammatiche e sintassi. Questa ricchezza di significati ci conduce ad un’esperienza del mondo, anche del mondo reale, vissuta attraverso un nuovo “territorio” intelligente e condivisibile. Così si determina un cambiamento importante nel “modo di vedere” perchè è proprio il nostro sguardo sul mondo ad esserne cambiato e, di conseguenza (e lo dico nel bene e nel male), la nostra impronta su du esso. Per questa ragione la sfida è nella crescita di una consapevolezza riguardo ai mezzi che utilizziamo e alle conseguenze che il loro uso comporta. Tanto più per chi (architetti, ingegneri, designer) deve immaginare e realizzare l’habitat nel quale viviamo. Mi rassicura il fatto che questa nuova sensibilità sia presente in tanti giovani che, come voi, sono lettori intelligenti e aperti.
Greg Lynn - "Predator" - 2001
Ecco i link per approfondire: La postazione remota di Marco Nardini I motori della forma (http://www.archandweb.com/scritti/nardini_4.htm ) Tecniche di avanguardia nella progettazione contemporanea ( http://www.archandweb.com/scritti/nardini_3.htm ) E-Tecnologie ( http://www.archandweb.com/scritti/nardini_2.htm ) Architettura dell’immateriale (http://www.archandweb.com/scritti/nardini.htm ) A proposito de “La Carta di Zurigo” (http://www.eartmagazine.com/elencoarticoli.asp?cat=36&language=ITA)
Marco Nardini (1961) Insegna Disegno Industriale presso il Corso di Laurea in Grafica e Progettazione multimediale (Facoltà di Architettura “Valle Giulia”, Roma “La Sapienza”). É autore di studi e ricerche sull’applicazione delle tecnologie innovative al progetto. Dottore di Ricerca in Progettazione Ambientale, ha svolto un periodo di ricerca all’estero grazie ad una Borsa annuale di Ricerca del Governo canadese, (International Council for Canadian Studies, Faculty Research Program, Canada Government). Si occupa di visual ed industrial design e di recente ha pubblicato Design Virtuale. Il digitale nel progetto, ed. Mattioli1885.
Contatti Marco Nardini: e-mail: marco.nardini@uniroma1.it sito web: http://ecologo.3go.it PLUS Dopo L'intervista IBRIDA pubblicata su Arch&Web e E_Art Magazine curata da Airaldi Giacomo e Ruotolo Paola, Paolo Marzano pubblica un interessante Articolo recensione dal Titolo IBRIDAZIONI - Un approccio diverso alla rete - prime avvisaglie collaborative su Architecture.it [ http://www.architettare.it/default.asp ] che indaga le potenzialità collaborative della rete, al di la della visione ristretta di redazione, oltre i confini prestabiliti...
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