Gli sviluppi dell'informatica hanno fatto sì che tutte
le discipline - architettura compresa - si trovino a fare i
conti con gli algoritmi. “All is algorithm!” afferma
Gregory Chaitin, cioè tutti i fenomeni della fisica sono
traducibili in algoritmo e questo vale anche per l'architettura
che del mondo fisico fa parte.
L'uso più scontato degli algoritmi in questo settore,
già sperimentato da diversi anni, consiste nella creazione
di programmi che supportano e facilitano la tradizionale attività
dell'architetto. Le tecniche di disegno e modellazione al computer,
utilizzate in alternativa al disegno “riga e squadra”
e al modello tridimensionale, sono ormai entrate nell'operatività
corrente.
Il settore dell'informatica denominato CAD (Computer Aided Drafting)
ha prodotto molti software applicativi per il disegno tecnico
e la modellazione di superfici e volumi, permettendo di visualizzare
e sviluppare idee velocemente. Ormai nella storia sono Autocad,
Rhinoceros, 3D
Studio, Catia e molti altri.
Alla base di questi software ci sono algoritmi i cui principali
ingredienti sono strutture-dati, cioè
matrici, lunghe stringhe di coordinate. Il metodo matriciale
di trasformazione di punti in una
proiezione prospettica è geometricamente identico a quello
usato nel Rinascimento e lo stesso modo in cui molti architetti
usano i sistemi CAD in sostanza riflette le tecniche grafiche
tradizionali.
Recentemente però si stanno affacciando nuovi software
parametrico-generativi (come Top-solid, Paracloud e Generative
Components) che, a differenza del CAD che è un puro strumento,
“collaborano” al risultato finale. Norman Foster,
Frank O. Gehry, Zaha Hadid - solo per citare
alcuni degli architetti più famosi - si sono avvalsi
di questi software per automatizzare problemi
complessi di progettazione, con molti vantaggi non solo in termini
di tempo, ma anche nella
minuziosa definizione di tutti i dettagli, nel miglioramento
del livello di prestazione degli edifici e
perfino nella possibilità di far emergere forme inedite,
estreme.
Dal punto di vista matematico, controllare sistemi complessi
come quelli architettonici è un
problema molto difficoltoso da affrontare; eppure la Natura,
senza “conoscere” la matematica, nel tempo ha perfezionato
organismi ben più complessi, come le diverse forme di
vita. Traendo spunto da ciò, sono state elaborate tecniche
computazionali basate sui principi dell'evoluzione naturale
come gli algoritmi evolutivi che, sfruttando il potere e la
velocità di elaborazione del computer, si sono rivelati
capaci di comprimere i tempi dell'evoluzione e di far comparire
strutture sorprendentemente complicate e interessanti.
Tra gli algoritmi evolutivi, una posizione speciale è
occupata dagli algoritmi genetici sviluppati da John Holland,
uno dei membri del Consiglio di fondazione del Santa Fe Institute,
che ha provato ad applicare al calcolatore il procedimento dell'evoluzione
naturale: viene simulata al computer la risoluzione di un problema
prendendo spunto dal modo in cui la natura, secondo le teorie
darwiniane, affronta la questione della sopravvivenza e dello
sviluppo degli esseri viventi. In sintesi, si stabilisce il
seguente parallelismo: il DNA di un organismo diventa la stringa
di codice di un programma informatico che descrive la sequenza
di operazioni da svolgere per risolvere un determinato problema;
mentre la competizione degli organismi per la sopravvivenza
diventa l’approssimazione dei programmi verso la migliore
soluzione del problema stesso. Il computer ripetendo più
volte e con minime variazioni tale sequenza genera un’intera
“popolazione” di soluzioni possibili che vengono
poi valutate in base a criteri stabiliti in partenza (cioè
è applicata la cosiddetta “funzione di fitness”).
In analogia con il procedimento di selezione naturale, che favorisce
la riproduzione degli individui migliori affinché generino
una nuova popolazione maggiormente adatta all'ambiente, il computer
incrocia il “patrimonio genetico” delle soluzioni
che hanno conseguito la valutazione migliore per ottenere una
nuova “generazione” di soluzioni la cui valutazione
media sarà più alta rispetto alla precedente.
Questo processo continua finché viene raggiunta la soluzione
ottimale. Quindi la generazione algoritmica è basata
su regole semplici, ma può raggiungere risultati complessi;
essa non procede con il “lento passo darwiniano”
(Marvin Minsky), realizzando un altissimo numero di steps evolutivi
in poco tempo da cui emergono soluzioni spesso inaspettate.
Perciò gli algoritmi genetici sono risultati utili in
molte discipline e recentemente sono stati introdotti anche
nella risoluzione di problemi di progettazione architettonica
che negli ultimi decenni, per quantità di informazioni
e livello di complessità, hanno subito un incremento
di difficoltà tale da non poter essere più gestiti
con i metodi di progettazione tradizionali.
John Frazer, architetto e ricercatore della Cambridge University,
per primo ha creduto nella
efficacia degli algoritmi genetici per trovare soluzioni ottimali
ai problemi architettonici. In An
evolutionary architecture riconfigura l'architettura come una
forma di vita artificiale soggetta a
processi evolutivi in risposta all'ambiente e alle esigenze
dell'utenza e porta l'esempio di un
programma da lui sviluppato nel 1993 in collaborazione con Peter
Graham presso l'Università di Ulster, in cui gli algoritmi
genetici sono usati per disegnare colonne tuscaniche secondo
rapporti proporzionali codificati che riguardano tutti gli elementi
della colonna. Tali regole sono state tradotte in un programma
informatico, ma per ciascuna delle proporzioni accuratamente
specificate viene sostituito un “gene”, originando
così una popolazione evolutiva casuale di colonne mutanti
rispetto al canone dell'ordine tuscanico. A questo punto interviene
la “selezione naturale”: il computer sceglie per
la “procreazione” le colonne più vicine ai
rapporti canonici che, incrociando il loro “patrimonio
genetico”, originano una generazione successiva di colonne
tuscaniche perfettamente proporzionate.
Varie sono state recentemente le sperimentazioni del design
evolutivo, soprattutto nell'ambito del disegno industriale e
nello studio dei modelli urbani. Ingeborg Rocker nel progetto
Urban Adapter, presentato nel 2010 alla Biennale di Hong Kong
sull'arredo urbano, ha “sequenziato” una panchina,
descrivendola in un diagramma che scompone il progetto in un
certo numero di componenti poi tradotti in codice. Da questa
sequenza, individuati i punti in cui, attraverso l'applicazione
degli algoritmi genetici, possono verificarsi mutazioni, la
progettista ha ottenuto una popolazione di panchine generate
al computer, tra le quali, utilizzando specifici criteri di
fitness, sono stati selezionati gli individui “più
adatti all'ambiente” e, facendoli interagire tra loro
(crossover), sono emerse successive generazioni dell'arredo
urbano-panchina sempre nuove e migliori in relazione al fitness
predefinito.
In esperienze come questa viene integralmente traslata l'evoluzione
darwiniana nella progettazione architettonica per la quale è
scelta la medesima funzione di fitness che la Natura “applica”
agli esseri viventi il cui obiettivo è di sopravvivere
nell'ambiente. Una forzatura che presenta il limite di sopprimere
quasi completamente il ruolo creativo dell'architetto, cui dovrebbe
spettare il compito di guidare la selezione individuando le
funzioni e gli scopi ai quali i modelli elaborati devono adattarsi
per sopravvivere.
Altro limite attuale nell'applicazione di questi procedimenti
sta nella complessità di fattori che si
intersecano nei problemi architettonici. “Sequenziare”
una panchina o una colonna non presenta certo lo stesso livello
di difficoltà della descrizione di un intero edificio
con uno script di istruzioni in codice; così l'applicazione
degli algoritmi genetici in architettura si riduce spesso a
segmenti del processo architettonico, riferiti a problematiche
edilizie circoscritte di tipo spaziale, strutturale o impiantistico.
Per applicare proficuamente gli algoritmi genetici, agli architetti
dunque non solo spetta il compito di codificare esattamente
i problemi architettonici e di definire efficaci funzioni di
fitness, ma anche di attuare un approccio di tipo olistico,
in cui cioè il controllo della progettazione avvenga
a tutte le scale, dalle parti al tutto e viceversa.
Mentre su questo fronte si procede lentamente, un utilizzo che
si sta diffondendo degli algoritmi
genetici nell'ambito delle costruzioni è riscontrabile
negli strumenti informatici attraverso i quali il computer diventa
generatore di design, aiutando l'architetto ad indirizzare verso
una soluzione
ottimale alcuni singoli aspetti della progettazione. Per esempio
dal punto di vista strutturale
l'ottimizzazione comporta la riduzione al minimo del peso delle
strutture grazie alla graduale
eliminazione della materia non collaborante. Questa metodologia
risulta importante soprattutto nella progettazione di edifici
di notevoli dimensioni e con una geometria molto complessa che
non possono essere controllati con i metodi di calcolo tradizionali.
La potenza computazionale degli algoritmi genetici è
stata cruciale per la progettazione di recenti straordinarie
grandi strutture, come la copertura dell'Aquatic Center di Pechino
(noto anche come il Water Cube) realizzato per i giochi olimpici
del 2008, composta da 25000 sezioni di acciaio singolarmente
dimensionate; o come la cupola della Great Court del British
Museum di Londra disegnata da Norman Foster, che è formata
da 1656 pannelli di vetro tutti diversi per forma e dimensioni.
Mutsuro Sasaki – strutturista che collabora con Arata
Isozaki e Toyo Ito – ha ideato le “Flux
Structures”, elementi portanti le cui sagome, con un alto
numero di passaggi compiuti da un
elaboratore che si avvale di un algoritmo evolutivo, si assottigliano
raggiungendo, oltre
all'ottimizzazione strutturale, risultati formali interessanti:
nel progetto di Isozaki, presentato al
concorso per la nuova stazione TAV di Firenze S. Maria Novella,
il sistema trave-pilastro con
successive iterazioni si libera della materia non collaborante,
fino a raggiungere una forma simile a quella di un albero.
Oltre al settore strutturale, molteplici sono anche le applicazioni
degli algoritmi genetici orientate al perfezionamento delle
performance impiantistiche e ambientali degli edifici. Per esempio
Luisa
Caldas e Leslie Norfold del MIT hanno messo a punto uno strumento
di progettazione generativa per la ricerca delle misure ideali
delle finestre di edifici per uffici, tenendo conto non solo
delle esigenze di illuminazione, ma anche delle prestazioni
termiche, acustiche e strutturali. Sempre in ambiente accademico
è stato concepito il software parametrico-generativo
Generative Components, sviluppato da John Nastasi dell'Institute
of Technology di New York e applicato per la progettazione delle
strutture frangisole della Kwait Military Academy, del centro
commerciale SanLiTun di Pechino e del complesso 39571 costruito
a New Orleans dopo l'uragano Katrina.
Quindi l'uso degli algoritmi genetici in architettura ha elevato
il grado di raffinatezza e perfezione
tecnologica di ciò che può essere realizzato dal
punto di vista costruttivo. Tuttavia gli algoritmi
genetici possono essere usati anche come strumento di avanguardia
per generare forme estetiche, espandendo oltre il reale le possibilità
creative.
E' questo l'inaspettato dono che l'era digitale offre all'architettura.
La “morfogenesi digitale”,
definita da Branko Kolarevic dell'Università della Pennsylvania
come la “generazione di forme con base computazionale”,
sta aprendo nuove dimensioni in architettura: gli algoritmi
passano
attraverso milioni di operazioni al secondo per trovare una
serie di soluzioni estetiche che estendono il pensiero del progettista
in un mondo sconosciuto e inimmaginato.
Attraverso i metodi di progettazione generativa il computer
diventa esso stesso progettista e
l'architetto “allevatore di forme”, come accade
a Greg Lynn nel progetto “la casa embriologica”:
mentre il computer da un codice iniziale genera infinite variazioni
del design della stessa casa,
all'architetto non resta che guardare sullo schermo le forme
sempre nuove che emergono.
Con William Latham e Stephen Todd l'uso degli algoritmi genetici
è diventato un vero e proprio
ramo della creazione artistica. Le loro opere di morfogenesi
sono organismi artificiali che vivono, si riproducono e sviluppano
all'interno del cybersapazio, realizzati grazie al software
Mutator che impiega le leggi dell'evoluzione darwiniana per
generare forme selezionate proprio secondo criteri estetici
invece che in base alla compatibilità ambientale.
Sperimentazioni di questo tipo non producono architetture nel
senso tradizionale del termine, ma forme astratte alle quali
al momento è difficile attribuire una qualche funzione
e che difficilmente si possono tradurre in architettura reale
e pertanto restano nel mondo concettuale aumentando il nostro
potenziale di astrazione.
Invece di prefiggersi obiettivi ben definiti come l'ottimizzazione
strutturale o impiantistica, questa
architettura che potrebbe essere definita “contemplativa”
o “metafisica” si diletta nel guardare le forme
che aleggiano nell'universo computazionale totalmente impensate
e forse addirittura
impensabili dalla mente umana, essendo infinitamente più
ampie e varie dei modelli geometrici vecchi e nuovi ai quali
siamo abituati. Geometrie non euclidee, teorie della complessità
e del caos, automi cellulari, sistemi dinamici, auto-organizzazione,
dinamiche non lineari e frattali sono solo un piccolo anticipo:
il vaso di Pandora sta per scoperchiarsi.
L'idea di universo computazionale è superbamente raffigurata
dal cono superiore della clessidra descritta in Genetic Space
dall'architetto birmano-statunitense Karl S. Chu. Nell'immagine
di Chu i due coni della clessidra rappresentano, rispettivamente,
quello in basso la realtà fisica e storica e quello in
alto l'universo computazionale che contiene tutto ciò
che l'uomo può concepire e anche di più: l'insieme
di tutti gli algoritmi possibili, ma non ancora computati nel
nostro presente; tutte le condizioni di realtà compatibili
con le leggi della natura e della fisica, potenzialmente esistenti,
ma non ancora realizzate; tutte le specie di organismi viventi
che l'evoluzione naturale farà emergere in futuro; la
totalità dei libri che si potranno mai scrivere usando
tutte le combinazioni di parole; tutte le melodie che si potranno
mai comporre usando tutte le combinazioni di note; tutte le
architetture possibili, anche quelle che non hanno alcuna connessione
con qualcosa di già visto.. Naturalmente tutto espresso
in bits.
Di queste meraviglie riservate all'uomo nei prossimi secoli
o millenni possiamo avere già oggi
un'anteprima grazie all'intelligenza artificiale che, compreso
il codice dell’evoluzione naturale, la simula ad una velocità
nettamente superiore rispetto al tempo della storia cui siamo
abituati,
affrettando così la realizzazione del nostro futuro.
Questa protesi tecnologica permette a noi che
abitiamo nel cono inferiore della clessidra di penetrare nel
cono superiore per contemplare le
architetture riservate al mondo a venire.
Non c'è dubbio che in un futuro più o meno prossimo
le forme astratte del mondo concettuale
potranno essere portate nella realtà fisica. Per adesso,
tuttavia, possiamo accontentarci di guardare per la prima volta
ciò che questa specie di iperuranio computazionale ci
offre, il che, come testimonia Stephen Wolfram che per primo
l'ha esplorato, può essere estremamente eccitante.
Resta da verificare poi come queste nuove forme potranno essere
utili per una prossima
applicazione nel mondo reale. Ma l'originalità di questa
architettura concettuale, che è poi il suo
punto di forza, sta proprio nel fatto che non c'è uno
scopo immediato, un'utilità pratica. Essa non è
il prodotto di un processo evolutivo ottenuto gradualmente,
passo passo, come avviene nella scienza che raggiunge la soluzione
di un problema attraverso continue approssimazioni; piuttosto
è come se ci trovassimo improvvisamente di fronte a tutte
le soluzioni possibili. Il disvelamento di questo sterminato
serbatoio di idee architettoniche ci permette di guardare oltre
l'orizzonte che conosciamo, a cui siamo abituati, per aprirci
a un mondo pieno di sorprese.
Il problema è completamente ribaltato: l'architetto ha
a disposizione un'infinita varietà di forme che a prima
vista sembrano prive di utilità pratica. Ma la mancanza
dello scopo immediato diventa una sollecitazione, una sfida
per il progettista cui compete di formulare l'obiettivo, di
cercare la funzione che si adatti alla forma.
E' la dinamica inversa rispetto a come siamo abituati a lavorare:
dal cercare una forma che assolva a una funzione, passiamo al
cercare una funzione che si adatti a una delle innumerevoli
forme che abbiamo a disposizione. Invece di avere un obiettivo
e scopi programmati da raggiungere, la creatività dell'architetto
può esplicarsi in modo più ampio e più
alto. Proprio il concetto di “scopo” distingue bene
i tre livelli di applicazione degli algoritmi
all'architettura fin qui descritti.
Al primo livello, che potrebbe essere definito pratico-strumentale,
cioè quello dei programmi in uso - tipo CAD - lo scopo
è chiaramente definito a priori dall'architetto o dal
committente e il computer ne agevola il raggiungimento. L'orizzonte
è quello della progettazione tradizionale: si inizia
con uno o più obiettivi da conseguire (la qualità
estetica, la funzionalità, la stabilità strutturale,
l'efficienza impiantistica..) e gli algoritmi sono sfruttati
per realizzare programmi funzionali a facilitare il raggiungimento
di tali scopi.
Al secondo livello, quello dei programmi che si basano sugli
algoritmi evolutivi e genetici, gli
obiettivi sono tendenzialmente indicati, ma si allarga l'orizzonte,
si lascia al computer un margine di libertà per raggiungerli
inventando la forma più adatta per soddisfarli. Qui l'esito
è meno chiuso, l'algoritmo genetico può andare
oltre le nostre aspettative.
Infine al terzo livello, quello dell'architettura concettuale,
si oltrepassa l'orizzonte: lo scopo non è
più definito a priori, va inventato. L'architetto ha
a disposizione tutte le forme cui deve però essere attribuita
una funzione. Questo rappresenta una svolta, un balzo in avanti
costituito dalla possibilità di inventare funzioni mai
pensate prima. “Esplorare l'universo computazionale ci
fa scoprire un mucchio di cose interessanti – avverte
Wolfram -; poi bisognerà armonizzarle con gli scopi umani”.
Ovviamente questo è un livello al momento molto meno
pratico rispetto al tradizionale lavoro
dell'architetto, perché richiede uno sforzo concettuale
mettendoci dinanzi a qualcosa di mai visto prima. Tuttavia proprio
qui probabilmente si trova lo slancio vitale per un'architettura
che troppo spesso lamenta segni di debolezza.
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