14.09.2004 |
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Induction design. |
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Un metodo per una progettazione evolutiva | ||
presentazione del testo di a.casillo
Non è una nuova teoria architettonica ma, come si evince anche dal sottotitolo semplicemente l’esposizione di una personale metodologia progettuale: il computer come estensione della mente umana, usato quindi come uno dei tanti strumenti adoperati dall’architetto per definire un progetto e non perché da solo faccia il progetto. Non è questa certo una novità perché in qualche modo è ciò che Negroponte enunciava [La macchina per l'architettura, il Saggiatore, Milano, 1974] alla fine degli anni sessanta, quando con il lavoro svolto con il "Gruppo Macchina per l'architettura" dell'MIT individuava fondamentalmente tre approcci diversi rispetto all'utilizzo dei computer, o delle macchine in genere, come aiuto alla progettazione: adeguare il computer al metodo progettuale, sfruttando quindi la sua capacità di automatizzare i procedimenti, rendendoli più rapidi ed eventualmente meno costosi; adattare il metodo progettuale al computer, quindi trattare solo i problemi compatibili con la struttura della macchina; ricercare una nuova metodologia progettuale che tenga conto delle potenzialità del computer, in un modo di adattamento reciproco. Si distingueva quindi una sostanziale differenza tra progettazione con l'uso del computer (computerizzata), e progettazione con l'aiuto del computer (assistita), ma soprattutto con quel lavoro si affermava che la progettazione con l'aiuto del calcolatore non è possibile - e sarebbe pericolosa - senza l'intelligenza della macchina, perché si riconosceva, e si auspicava, che la macchina avesse un certo grado di intelligenza. E la macchina, grazie al software, è intelligente se ci si mette d’accordo su un adeguata definizione di intelligenza. Il computer sa sognare? si chiede Watanabe. Al momento no! è l’ovvia risposta, ma, aggiungiamo noi, indipendentemente dal fatto che adesso ci possa interessare o meno la capacità di una macchina di sognare, non possiamo escludere che in un futuro, imprecisabilmente vicino o lontano da questo momento, possa farlo. Del resto Filippo Brunelleschi con i suoi studi sulla prospettiva cercava di codificare un metodo scientifico per riprodurre su di un piano bidimensionale una realtà quantomeno a tre dimensioni. Quel metodo è poi servito spesso a riprodurre delle pure visioni al punto che potremmo quasi renderle concrete: attraverso la prospettiva Giovan Battista Piranesi si è posto all’interno dello spazio riuscendo a ricreare il movimento attraverso l’immagine statica, modellando architetture trasgressive capaci di sovvertire le regole prestabilite. E probabilmente il Brunelleschi neanche si interrogava sulla possibilità che un giorno sarebbero esistiti dei congegni in grado di fare da soli quel lavoro. È all’uomo quindi che nel complesso processo progettuale ed esecutivo spetta, ancora oggi, il compito di stabilire regole per poi infrangerle, fissare schemi da negare, mettere paletti da superare, usando la fantasia per costruire, distruggere e ricostruire in qualsiasi momento le linee guida del suo comportamento creativo. Al computer tocca il compito di eseguire calcoli, rispettare relazioni, trovare combinazioni. Ma gli strumenti tecnici non sono mai neutrali, perché modificano le forme di relazione, e come ha suggerito Marshall McLuhan [Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1999], bisogna analizzare non solo il messaggio che un mezzo di comunicazione trasmette, ma anche, e soprattutto, i criteri strumentali con cui agisce, quindi come altera la realtà circostante e la società. È una questione di metodo. Si possono motivare tutte le proprie scelte, ma soltanto a posteriori. In tutta onestà, non si immaginano assolutamente le ragioni che ci hanno spinti a determinate scelte. Però si può descrivere un percorso mentale, un metodo, una ricerca. Si può descrivere un processo creativo. E se riusciamo a descrivere il processo in modo che altri lo possano capire allora è anche possibile programmarlo, e quindi farlo processare da un computer. Ed è quello che, ad esempio, fa da anni Celestino Soddu per i suoi progetti di architetture, di oggetti, di ambientazioni diverse in continua trasformazione, che lui definisce argenie. Soddu sostiene che il design generativo è l’idea espressa come codice genetico degli oggetti artificiali. Il progetto generativo è un software-idea che opera generando eventi unici e non ripetibili come espressione plurima e aperta dell’idea generante [Arte Generativa, in www.generativeart.com]. Il problema è scrivere e descrivere il codice genetico di un oggetto. Quello di Watanabe è invece un progetto evolutivo, la cui prerogativa è quella di far crescere i risultati di generazione in generazione. Comunque, al di là di metodi e tecniche, lo scopo è quello di liberare la mente il più possibile da lavori compilativi, e impegnarla a pieno nell’azione creativa. L’idea non è automatizzare la progettazione... Si tratta di ottenere una qualità maggiore non una maggiore efficienza... E il computer non serve a creare forme strane, lo scopo deve essere scoprire nuovi modi di creare, altrimenti diventa un’estensione della matita. Il metodo base sviluppato dalle Scienze Moderne, ci ricorda Watanabe, è ricavare le regole dell’oggetto dall’oggetto stesso, e riapplicarle per ricreare un oggetto. Questo significa estrapolare le regole in un ambiente ideale, il più libero possibile da ogni disturbo. Semplificare una soluzione secondo le circostanze e applicarla in modo più o meno indiscriminato è un metodo comunemente usato ad esempio dall’ingegneria e dalla scienza delle costruzioni: lo sforzo dei singoli pilastri di un semplice telaio può variare a seconda del carico. In ogni caso, non si regola la sezione dei pilastri individualmente in base alla differente sollecitazione. In un sistema naturale, ad esempio uno scheletro animale o una struttura tronco/rami, il criterio è sopportare il massimo carico con il minimo impiego di materiali, quindi il minimo sforzo. Da ciò si può dedurre che il biominimalismo non è la stessa cosa del minimalismo architettonico. Nei sistemi naturali i principi appaiono spesso semplici ai nostri occhi, e i risultati sono sicuramente sempre diversi. Ma le regole che si nascondono dietro la semplicità dei principi e la diversità dei risultati non le si scopre facilmente. L’ipotesi di Watanabe è che se la natura è il regno di ciò che è fuori dal controllo dell’uomo, allora le città contemporanee potrebbero essere vicine a un ecosistema naturale. Se è così, allora regole dello stesso tipo potrebbero nascondersi nel sistema. Pur essendo consapevole che le regole non possono essere individuate semplicemente osservando un paesaggio urbano, ha lavorato sull’idea che se quei principi potessero essere scoperti e programmati, le città e l’architettura si adatterebbero meglio al loro ambiente e al contempo diverrebbero più libere. A partire dal 1994 ha quindi sviluppato e realizzato progetti che sono veri e propri esperimenti in tal senso, e i vari Induction Cities, Web Frame e Wind Wing, che in questo testo descrive, sono stati intesi proprio come passi verso tale possibilità. arcangelo casillo [a.casillo@awn.it]
Arcangelo Casillo, architetto libero professionista e dottore di ricerca in Tecnologia dell’architettura, si occupa dal 1993 delle commistioni tra architettura, informatica, e cultura digitale, a cui si è avvicinato con una tesi di laurea sperimentale in progettazione architettonica e tecnologica assistita, e che ha successivamente approfondito con la tesi di dottorato (Spazio e ciberspazio: dall’ambiente reale all’ambiente digitale. Nuovi ambiti per il lavoro dell’architetto), con la collaborazione alle attività di ricerca e didattica del Dipartimento di Progettazione Urbana dell’Università Federico II di Napoli, e con docenze in vari progetti di formazione.Ha svolto attività di consulenza presso il “Servizio Infrastrutture: studi e progettazione” del Comune di Napoli nell’ambito del “Piano delle 100 stazioni”. Pubblicazioni
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