Le città invisibili. Le ragioni di una scommessa.

di Kiara Pipino

CITTA’ & SPETTACOLO

Oggi più che mai la città contemporanea si misura con la comunicazione, lo spettacolo per veicolare l’idea della propria immagine…arricchendone l’immaginario…

E’ in questa dimensione che si è sviluppato il Master in architettura per lo spettacolo oggi alla terza edizione, di livello internazionale, con la straordinaria partecipazione di Svoboda, Ronconi, Santiano…dello Studio Azzurro, di Padovani e Luzzati, Maggiani e Gino Paoli, oltre a Fiorato, Gallione,Sciaccaluga…persino Coppola di MTV… diversi progetti urbani si sono sviluppati, sperimentando installazioni, rappresentazioni di teatro itinerante, piano delle luci…Simulazioni per rileggere lo spazio, per acquisire nuovi strumenti, per comprendere parti di città dimenticate riguadagnando il senso dell’uso pubblico con partecipazione e interazione…Comprendere la storia dei luoghi, riconnettere le fila con passati remoti e vicini, circuitare storie e leggende… ricostruire narrazioni. Qui sta il senso del testo dell’Arch. Kiara Pipino che descrive un’operazione urbana tra progetto e teatro, tra scenografia e ricomposizione urbana…

Brunetto De Battè

La scenografia è l’elaborazione spaziale di un’idea, esattamente come l’architettura. La differenza sta nella scala, nei materiali e nelle prospettive di durata. L’eterno contro l’effimero, il vero contro il falso, il sacro contro il profano. La serietà contro una presunzione di facezia.Il rapporto diretto tra le due discipline diventa di straordinario interesse teorico e pratico, un vero e proprio laboratorio di sperimentazione spaziale e teatrale a contatto diretto con  fruitori più o meno casuali, stupiti, incuriositi. Nel caso delle installazioni scenografiche per lo spettacolo “Le città invisibili”[1], in scena a Rapallo il 22 ed il 23 agosto 2002, uno degli intenti era proprio quello di far relazionare l’esistente con l’immaginario, in modo tale da rendere più labile il confine tra scenografia, architettura e tessuto urbano. Per qualche ora infatti l’intero centro storico della cittadina rivierasca si è trasformato in una colossale scenografia, in cui ciò che fino a qualche momento prima veniva considerato un normale scenario urbano si trasformava in qualcosa di misterioso e sorprendente. Interessante vedere come gli stessi abitanti si trovassero come straniti di fronte a portoni, crocicchi e palazzi noti, famigliari. Ciò che normalmente  e quasi automaticamente avviene in teatro, cioè una consapevole sospensione dell’incredulità –tanto per citare una famosa frase di Coleridge, dalla prefazione delle “Lyrical Ballads”-  di fronte a quello che si sa essere solo una finzione, non avviene nelle strade all’interno di uno spettacolo itinerante. Il teatro è una scatola costruita per “rappresentare” qualcosa che può essere più o meno aderente alla realtà, ma che comunque rimane una rappresentazione o un’imitazione del reale. Nessuno mai commetterebbe l’errore di considerare “vero” ciò che succede sul palcoscenico di un teatro, per quanto bravi possano essere gli attori. Nel momento stesso in cui il pubblico si accomoda in platea assume la consapevolezza che quanto sta per vedere è sostanzialmente finto. Proprio perché la finzione viene accettata ed in un certo senso condivisa, in teatro è anche concesso l’uso di simboli in sostituzione di situazioni, loghi o di oggetti impossibili o difficili da ricreare: si pensi all’Amleto di Shakespeare, con il suo castello in Danimarca. Dal punto di vista strettamente scenografico cercare di ricreare su di un palcoscenico un castello medioevale può diventare un’impresa mastodontica e, fondamentalmente, priva di senso. Il pubblico infatti non si aspetta una cosa simile, quanto piuttosto un’atmosfera che lo riporti mentalmente ad un castello, che magari non sta nemmeno in Danimarca. Può bastare una luce, un’ombra sul fondale, un rumore. La mente umana tende  a ricostruire una propria e personale unità dalla frammentarietà, in un continuo e personalissimo rincorrersi di rapporti sinestetici tra le cose ed i ricordi, come la madeleine di Proust in “A la recherche du temps perdu”.

Tutto ciò in teatro.

  Portare il teatro all’esterno non è  certo una novità, dalla classicità in poi si è sempre fatto. Tuttavia, si è sempre cercato di mantenere la giusta distanza tra realtà e finzione, tra pubblico ed attori. Si rimane comunque legati a luoghi deputati, o a situazioni inequivocabilmente connotate. Da un lato, si tratta di un presupposto che garantisce il corretto svolgimento dell’evento, dando tranquillità agli attori e garantendo allo stesso modo al pubblico la fruizione ottimale della rappresentazione. Viene a mancare tuttavia, almeno nella generalità dei casi, l’integrazione con  l’ambiente circostante e con il pubblico stesso, manca quel tocco di imprevisto e di imprevedibile che in una manifestazione “in diretta” non dovrebbe venire meno. Manca la realtà che entra nella finzione, scombussolando l’ordine quasi cartesiano delle cose.

 

Nel caso delle “Le città invisibili”,  la sperimentazione si è spinta proprio nella direzione dell’integrazione pubblico/spettacolo. Portando la rappresentazione all’interno del vero tessuto urbano infatti sono venute a cadere tutte le barriere fisiche e psicologiche tra attori e spettatori ed improvvisamente il pubblico si è trovato ad essere parte integrante di quanto stava accadendo. Certo, “il bello della diretta” ha anche i suoi lati negativi, purtroppo inevitabili,  dovuti solo in modo molto marginale alla novità di quanto si andava a presentare quanto per lo più legati ad alcune reazioni  poco rispettose, per non dire decisamente di cattivo gusto, da parte di alcuni passanti.

Disguidi a parte, è interessante notare come la gente sia in un primo momento stranita e quasi a disagio davanti a luoghi rimaneggiati e riutilizzati in modo diverso da quello a cui sono abituati, ed è altrettanto singolare notare come poi, una volta capito il meccanismo, quasi tutti s’immedesimano nel nuovo “ordine” delle cose, cercando di scoprine tutti gli aspetti. Per dirla con Pascoli, sembra che in ognuno si risvegli fanciullino, che parte alla scoperta del nuovo mondo per dare i nomi alle cose. Lo spettacolo, inoltre, movendosi come un corteo per le vie e per le piazze ha goduto di un pubblico sempre diverso, per cui l’effetto sorpresa-presa di coscienza-partecipazione non si è praticamente mai fermato.

 

La scelta di intervenire sul territorio con delle installazioni richiama una tradizione che più che strettamente teatrale si ricollega alle esperienze artistiche dei Gutai, dei Fluxus e di Studio Azzurro ed alle recenti sperimentazioni pertinenti l’architettura effimera.

L’installazione parte dal dato architettonico di contorno, lo utilizza e cerca di integrarsi ad esso, o per lo meno cerca di stabilire un dialogo con esso. Diversamente dalla  semplice scenografia teatrale, l’installazione è posta sullo stesso piano sia rispetto al pubblico che rispetto agli attori, favorendo ancora una volta l’integrazione pubblico/spettacolo. In molti casi, infine, l’installazione gode di vita propria anche al di fuori  della rappresentazione teatrale, quasi nel tentativo di raggiungere lo status di scultura urbana.

  Nell’elaborazione della rappresentazione è da sottolineare la valenza spaziale del lavoro portato avanti dagli attori della compagnia Bold Fish[2], sotto la direzione di Robert Gordon [3]e di Matthew Hahn. Trovandosi di fronte ad un testo complesso e sostanzialmente privo di recitato –se si escludono i dialoghi tra Marco Polo e Kublai Kan- gli attori hanno dovuto ricreare situazioni ed ambienti di vissuto cittadino. Abitanti diversi, che vivono in modo diverso, per ogni città invisibile. Un teatro fatto di immagini, di tableaux vivants che, al di là delle peculiarità del soggetto, non hanno e non vogliono avere la pretesa della verosimiglianza.

Lo spettacolo portava “in scena” oltre quaranta tableaux tratti dalle “Le città invisibili” di Calvino, mentre le installazioni urbane si limitavano a dodici, il che fa capire quanto sia stato importante ed impegnativo il lavoro della compagnia.

Le città si snodavano lungo un percorso, tortuoso come il viaggio affrontato da Marco Polo, sfruttavano anfratti urbani, cunicoli, angoli dimenticati del tessuto rapallese. Un tragitto non sempre chiaro, che lasciava il pubblico libero di seguire gli attori, o di trovarsi una strada alternativa per poi ricongiungersi al corteo; ancora una volta, si dava agli spettatori la possibilità di scegliere, di essere parte attiva di un artificio razionalmente costruito. Si è tentato di “bombardare” il pubblico di stimoli, in modo tale da forzarlo gentilmente ad entrare in un stato fisico-mentale costruttivamente ricettivo e piacevolmente reattivo.

Camminando tra la gente, sbattendo contro la gente, rivolgendosi alla gente, compiendo gesti quasi rituali e minuziosamente ritmati gli attori davano vita ad Ottavia, ad Adelma, a Rissa, Berenice, Tamara, Clarice….ogni gesto era studiato per essere enfatico o evocativo. Un plasticismo corporeo che genera, a seconda dei casi, spazi, emozioni o semplicemente sensazioni. Ogni gesto è necessario  in quanto utile alla rappresentazione ed alla comprensione, e questo giustifica l’abbandono della naturalità o qualsiasi pretesa di realismo. Ancora quindi una volta, la lezione di Craig si sente forte e chiara, attualissima.

  L’integrazione tra il lavoro della compagnia e le installazioni è avvenuto quasi naturalmente, a conferma delle comuni basi filosofico-spaziali-teatrali. Il movimento, caratterizzato dal valore figurativo ed allegorico del corpo umano all’interno, intorno ed accanto alle installazioni, trasformava queste ultime in vere e proprie macchine  di scena. Il tutto avviene senza bisogno di alcuna spiegazione, o racconto, una specie di “Dramma del Silenzio”[4], in cui lo scopo è quello di far vivere un oggetto creandogli della vita attorno  e rendendogli il valore ed il diritto di espressività assoluta. I “moments of being”[5] che caratterizzano ciascuna  installazione si rendono evidenti al pubblico in modo naturale, in quanto ogni installazione si trasforma in scenografia al solo entrare “in scena” degli attori, e vive intensamente il suo nuovo stato in un tempo brevissimo. Alla fine di ogni momento, non c’è bisogno di un sipario per comunicarlo al pubblico: gli attori escono, ed il pubblico li segue.

L’operazione diventa interessante anche per i materiali utilizzati nelle stesse installazioni, cioè di oggetti comuni –porte, finestre, persiane sacchetti di plastica e spazzatura di vario genere- decontestalizzati e risistemati all’interno di un ordine nuovo, puramente arbitrario. Si ritorna sempre alle problematiche connesse alla comunicazione ed alle convenzioni ad esse correlate. Ad un segno, ad un oggetto deve corrispondere sempre un significato, attribuito per convenzione dagli appartenenti ad una stessa comunità. Si tratta di un principio cartesiano, che nella quotidianità più automatica per molti versi funziona ancora, almeno nelle sue linee più generali. Un esempio. Prendiamo una persiana di legno, di quelle che siamo abituati a vedere nella maggior parte dei centri abitati italiani. Le più comuni sono di colore verde scuro.  Ora, una volta staccate dalle pareti, scrostate e pitturate di un qualsiasi colore inusuale per il loro essere persiane e poi collocate in modo diverso che non a schermare delle finestre, tali persiane non ricondurranno soltanto al loro significato primigenio. E siccome non esistono altri significati riconosciuti a cui fare riferimento, la gente sarà portata a farsi delle domande, e quindi anche a cercare delle risposte. Si scatena una ricerca affannosa e affannata di significati, forse anche nel terrore di trovarsi di fronte a qualcosa che non mostra alcuna pretesa di significato. Oggi, con il progressivo sgretolamento di qualsiasi ideale e con la comunicazione che è diventata un dovere piuttosto che un’esigenza, la ricerca e la scoperta di significati sono diventate tendenze vitalistiche praticate e diffuse ovunque. È necessario interpretare, trovare un significato, e comunicarlo. Alla fine dell’Ottocento, Victor Hugo scriveva: “La letteratura ucciderà l’architettura”. Oggi si potrebbe dire: “La comunicazione, presunta o reale, soverchierà qualsiasi forma espressiva”. Il contrario del “créer des liens”[6], tanto per rimanere in ambito francese.

Ma continuiamo con l’esempio concreto.

  Nel caso dell’installazione per la città di Zora (figure 1 e 2 in allegato), sono state utilizzate sia persiane in legno, che vere e propri telai di finestre –con tanto di vetro. Il tutto a schermare un’imponente lampada multicolore. Le persiane sono state dipinte di nero, come delle quinte nere da cui fuoriesce irruente un’esplosione di colore.  Per la messa in scena, gli attori si sono mossi all’interno dell’installazione come se non ci fosse nulla fuori posto, come se le finestre e le persiane fossero le vere finestre e persiane  di casa –da lavare, aprire, chiudere, da cui sporgersi per salutare un amico, a cui appoggiarsi per fumare una sigaretta.

.…un ulteriore paradossale rovesciamento delle situazioni, dei segni e dei significati, ad indicare come l’impossibilità di un rapporto univoco tra segno, oggetto e significato e la moltiplicazioni di questi ultimi sia in fin dei conti un esercizio quasi casuale e comunque soggettivo che può portare addirittura al tentativo di ristabilire l’ordine cartesiano delle cose.

  Una situazione simile si è verificata anche per l’installazione che rappresentava Aglaura (figura 3 in allegato). In questo caso, si è utilizzato il tulle, materiale leggero, aereo, il cui campo semantico richiama una vasta serie di immagini, per lo più rassicuranti e liete. In Aglaura, il velo è utilizzato per creare delle “barriere” che rendono il attraversamento un’operazione parzialmente complessa e la caricano di una maggiore  valenza volitiva. Per passare ti devi fare strada. Tra l’altro, i veli sono stati posti proprio in corrispondenza di un passaggio  abbastanza stretto e senza soluzioni alternative.  Si tratta di sbarazzarsi di un abito mentale che ci porta a rimanere bloccati di fronte ad uno sbarramento, per quanto assurdo ed inutile esso possa essere. Il velo forma una cascata bianca che ricade sulle spalle dei passanti, nascondendo un traguardo –Ersilia la città dei legami, degli improbabili collegamenti.

Il concetto della dematerializzazione è alla base dell’articolazione spaziale di Diomira (figure 4 e 5 in allegato), suggestivamente collocata in Piazza Venezia, restaurata di recente.  Diomira “…con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre….” Si è voluto dare l’idea di una città come cristallizzata nel tempo, avvolta dal fascino e dall’astrazione della rovina  “archeologica”, da osservare alto e da una certa distanza. Una città morta, con l’unico tocco di colore dato dal gallo, travolta chissà quando, chissà come e da chissà quale cataclisma. Un po’ come “Il pianeta delle scimmie” [7], prima versione. L’atmosfera di sospensione spazio-temporale è fomentata anche da un sapiente gioco di luci e dall’uso della macchina del fumo; le masse bianche e leggermente rilucenti delle cupole ricoperte di polvere di marmo e la plasticità delle sculture sembrano fuoriuscire da un limbo misterioso e misterico.

Il positivo ed il negativo, il pieno ed il vuoto. Diomira e Leonia. La pretesa d’immortalità e la frenesia del cambiamento (figura 6 in allegato).

Leonia è la città che si rinnova continuamente, giorno per giorno, ammucchiando nelle proprie strade i resti della Leonia del giorno prima.  Nel percorso dello spettacolo, Diomira e Leonia quasi si fronteggiano in modo che l’una sia il tacito monito dell’altra,  realizzata con gli scarti della prima. Una città di spazzatura, ma di una spazzatura bianca, candida, pulita, ed in cui  il lavoro degli spazzini è quasi un rito “…circondato d’un rispettoso silenzio…”, la massima astrazione della comune materialità.

Una ritmica scansione spaziale: Dorotea (figure 7 e 8 in allegato). Racchiusa in una piccola e caratteristica piazza del centro storico rapallese, l’installazione –con le sue superfici riflettenti e l’impianto doppiamente simmetrico- definisce rapporti privilegiati tra gli elementi, moltiplica le prospettive ed i punti di vista, in un labirintico e disorientante gioco delle parti. Quattro “torri di alluminio” delimitano il territorio di Dorotea, mentre la geometrica e regolare disposizione delle pedane ne determina la scansione in quartieri, ognuno dei quali rappresenta quasi un mondo a sé. Una forte contrapposizione tra linee verticali e linee orizzontali, che si intrecciano si scontrano e scaturiscono le une dalle altre. La comunicazione, il movimento, tutto è influenzato dalla forma della città, che racconta se stessa attraverso la vita dei suoi abitanti. Dorotea è una città che “si guarda vivere”, come attraverso un vetro, ed infatti il pubblico rimane al di fuori di essa, srotolato lungo i suoi lati, i suoi confini. Un’altra città immaginaria, un’allucinazione, un’altra oasi nel deserto della vita. Una sorpresa che si svela improvvisamente lungo la strada, la solita strada di tutti i giorni,  e pronta a scomparire al prossimo passaggio.

  Di Clarice (figura 9 in allegato) si può dire che è una città di passaggio, o meglio, è una parentesi nel viaggio. Un  passaggio obbligato tra una città e l’altra, una sensazione che ti rimane sulla pelle, un odore che ti rimane nelle narici. È una città di cui non ti accorgeresti neanche, se non fosse per qualche improvviso bagliore, o strano rumore. Un insieme di oggetti spaiati  “…un tramestio di carabattole sbrecciate, male assortite, fuori uso”. Allo  stesso modo, Raissa (figura 10 in allegato). Un’altra città di passaggio, un’altra città triste, senza altri elementi per cui essere ricordata se non per il comportamento dei suoi abitanti, alternativamente ed arbitrariamente disperati ed esultanti. Sia in Clarice che in Raissa l’aspetto ritualistico ed enfatico del movimento degli attori conferisce potenzialità spaziali all’azione, rendendo di fatto inutile qualsiasi tentativo di ulteriore ambientazione scenica. Il movimento crea uno spazio “umano” la cui fruizione non è preclusa al pubblico.  Come in Ottavia, (figura 11 in allegato) in cui il pubblico passa “sotto” la città-ragnatela e guardando all’insù vede tutto un intrico di corde, reti e funi. È la città in cui tutto è appeso ad un filo, nel vero senso del termine, ed in cui gli abitanti sanno “…che più di un tanto la rete non regge”.

Scelte registiche sapientemente dosate che creano immagini e forme da corpi e che si adattano a luoghi disparati, come nel caso di Adelma, Anastasia, Armilla e Zobeide (figure 12 e 13 in allegato). È il potere di un teatro visuale, svecchiato dei virtuosismi e dell’autoreferenzialità, che nasce tra la gente e per la gente e che non pretende di rinchiudere la cultura all’interno di un contenitore stagno.

La forza e l’immediatezza delle immagini semplici, come per Argia, Marozia ed Eudossia, (figure 14, 15 e 16 in allegato) macchie di colore e forme definite, animate da un movimento interno, a sottolineare l’inaffidabilità della pura apparenza e la fedeltà al racconto di Calvino.

Argia, città sotterranea che viene guardata dall’alto, in cui gli abitanti sono come vermi che strisciano nei cunicoli colorati al di sotto di un improbabile prato fiorito, a due passi dal mare.

Eudossia, città che si specchia in e rispecchia un tappeto, un disegno perfetto ed imperscrutabile di un’idea. Un tappeto che è come una sfera di cristallo, in cui “….ognuno può trovare nascosta tra gli arabeschi una risposta, il racconto della sua vita, le svolte del destino”. Marozia, la città delle rondini e dei topi, della voglia di spiccare il volo e dell’incapacità di staccare i piedi da terra, per cui anche le rondini sono, in realtà, delle specie di stendardi fissati ad una certa altezza ed incapaci di muoversi. L’anelito di libertà e di cambiamento che si compiace di se stesso, consapevole delle potenzialità insite nel suo essere  in fieri tanto da rimandare continuamente la fase esecutiva.

Più sottile l’interpretazione sottesa alle installazioni pertinenti  Moriana e  Andria (figure 17 e 18 in allegato), la città doppia e la città che si specchia nel cielo. La prima, priva di spessore, cerca di mostrare ai visitatori la migliore parte di sé, la sua opulenza; ma il visitatore entra, gira, scopre, fa girare la ruota. Ogni medaglia ha il suo rovescio e non è tutto oro quello che luccica: muri neri e rifiuti incrostati dietro la lampada magica e la ballerina, il lato oscuro e non voluto di una presunta società splendente. Accenni di Burri e di Vedova in un gioco di forme e di spessori. Andria invece è la città che muta al mutare delle costellazioni, in cui ogni strada “… corre seguendo l’orbita di un pianeta….”. Gli astri, i pianeti come tanti palloncini nel cielo, quasi a formare un tetto. Palloncini che si muovono, in alto come in basso, un po’ per volere divino, un po’ per volere degli abitanti “…ogni cambiamento d’Andria comporta qualche novità tra le stelle”. Il tutto, senza guastare l’ordine  e l’armonia che regnano sia in cielo che in terra.

L’incertezza di uno spazio scarsamente identificabile è alla base dell’installazione per la città di Zemrude (figura 19 in allegato), che cerca di rispecchiare, in senso scenografico-archiotettonico, il testo di Calvino. “È  l’umore di chi la guarda che da alla città di Zemrude la sua forma”.

 Due cubi realizzati con materiale non immediatamente identificabile, che celano o rivelano ombre o persone, in un susseguirsi ritmico di movimenti ed indecisioni. Le strutture, per la loro natura geometrica, definiscono uno spazio preciso, una specie di trappola, che tuttavia rimane evanescente e quasi impercettibile; è uno spazio che si smaterializza nel momento stesso in cui viene percepito. È come una parentesi che si apre e si chiude in un discorso, che aggiunge significato senza per altro distogliere l’attenzione dalla meta finale.

  Il potenziale espressivo del viaggio si è arricchito anche grazie alla particolare atmosfera creata dalla musica che ha continuamente accompagnato il pubblico sia attraverso la tromba dal vivo di Tullio Salvatore, sia attraverso le complesse e suggestive elaborazioni dei Viclarsen, Sassi  ed altri.  Il potere della musica in uno spettacolo simile è da non sottovalutare, in quanto permette un’immediata identificazione dello spettacolo e permette di ricreare in modo più rapido la necessaria atmosfera, tappa per tappa, evitando la dispersione dell’attenzione –principale nemica per gli spettacoli itineranti all’aperto. Per non dire dell’”effetto calamita” che la musica –molto più facilmente del teatro- riesce ad esercitare sul pubblico e sui passanti. In un centro urbano così raccolto inoltre la musica trova uno spazio di ambientazione naturale, creando un volume sonoro fisicamente percepibile.

  L’interazione pubblico/spettacolo era uno degli scopi perseguiti. Come si è già ampiamente detto, si voleva far interagire la gente con ambienti e spazi conosciuti nella quotidianità e spesso sottovalutati, o semplicemente dati per scontati. Se le installazioni cercavano di integrarsi con il costruito urbano modificando di fatto la percezione di uno spazio, solo nel caso di Aglaura si ritrova una reale interazione con il pubblico. Ciò è spiegabile soprattutto da motivi di sicurezza, considerata l’inevitabile precarietà delle strutture per esempio di Zora o di Eudossia, o la fragilità  di Marozia e Andria. Il compito di coinvolgere il pubblico è quindi per lo più spettato agli attori. Si è trattato di un coinvolgimento gioioso e giocoso, che nulla ha a che vedere con alcuni tipi di sperimentazioni  teatrali caratterizzate dall’integrazione “violenta”  pubblico/spettacolo. Nelle “città invisibili”, il pubblico si trovava spesso al centro della scena, con gli attori  davanti al naso, che chiedono aiuto o indicano dove andare (figura 20 in allegato).

  Il successo del teatro tra la gente risulta evidente. A conti fatti, al pubblico piace “far parte” dello spettacolo, così come scegliere dove,  quando e secondo quali modalità seguirlo. Superata l’ovvia iniziale diffidenza, si diventa curiosi non soltanto nei confronti di una messa in scena sicuramente per molti versi “sui generis”, ma anche rispetto al testo presentato. Questo, inoltre, per la sua natura e per la maestria  del suo autore,  ha permesso una pluralità di interpretazioni  e di letture consentendo di fatto a ciascuno –pubblico, attori, registi, scenografi- di apprezzarne le sfaccettature e di farsene una propria idea. Nei giorni successivi alle rappresentazioni, le librerie della cittadina rivierasca hanno venduto molte più copie del romanzo di Italo Calvino di quante ne avevano vendute nei mesi precedenti ….

“sa, è esaurito….sarà per via dello spettacolo dell’altra sera…l’ha visto?…bello..interessante. Comunque abbiamo già fatto richiesta alla casa editrice. ….magari la settimana prossima…”

“Lo spettacolo?”

“No, il libro”

“Ah:”

….e si ritorna al solito assurdo quotidiano. In una città visibile. Fine della storia.


[1] Lo spettacolo è stato tratto dal romanzo di Italo Calvino “Le città invisibili” pubblicato per la prima volta nel 1972.

[2] I Bold Fish sono una compagnia formata da sette tra attori e registi: Lynne Forbes, Mark Griffin, Matthew Hahn, Leone Hamman, David Humeau, Deborah Newbold, Lily Pende e Carlos Vesga.  Tutti e sette hanno portato a termine i propri studi teatrali al Goldsmiths College.

[3] Robert Gordon è il direttore del Drama Department del Goldsmiths College dell’Università di Londra. Di origine sudafricana, Gordon vanta numerose regie teatrali di successo.  In Sudafrica ha anche riscosso successo come attore, recitando in 50 radio drammi ed in 15 produzioni teatrali.

[4] Secondo Craig, rispetto al Dramma del Silenzio  “….i drammi non dovrebbero mai dire nulla…. Le azioni i sentimenti suscitati non dovrebbero mai avere una conclusione, dovrebbero rimanere un mistero; e il mistero un attimo dopo la conclusione non esiste più; il mistero muore non appena toccate l’essenza delle cose o appena la vedete con chiarezza.” Da G. Attolini, Gordon Craig. Il teatro del XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 1996.

[5] Il “moment of being” è, secondo Virginia Woolf in “The Common Reader”,  quell’attimo in cui la percezione dell’uomo è spinta alla massima intensità, per cui diventa possibile comprendere ed analizzare gli stimoli, che come atomi, ci bombardano in modo disordinato e disorganizzato creando la nostra esperienza giornaliera di vita. Chiari i riferimenti culturali e filosofici alle teorie di Bergson e di William James.

[6] Da Antoine de Saint-Exupéry, “Le petit prince”, 1943.

[7] Film del 1967 diretto da F.J. Schaffner, con Charlton  Heston e Ki