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ARCHITETTURA E ALGORITMI

 

di M. Elisabetta Bonafede

 


Gli sviluppi dell'informatica hanno fatto sì che tutte le discipline - architettura compresa - si trovino a fare i conti con gli algoritmi. “All is algorithm!” afferma Gregory Chaitin, cioè tutti i fenomeni della fisica sono traducibili in algoritmo e questo vale anche per l'architettura che del mondo fisico fa parte.
L'uso più scontato degli algoritmi in questo settore, già sperimentato da diversi anni, consiste nella creazione di programmi che supportano e facilitano la tradizionale attività dell'architetto. Le tecniche di disegno e modellazione al computer, utilizzate in alternativa al disegno “riga e squadra” e al modello tridimensionale, sono ormai entrate nell'operatività corrente.
Il settore dell'informatica denominato CAD (Computer Aided Drafting) ha prodotto molti software applicativi per il disegno tecnico e la modellazione di superfici e volumi, permettendo di visualizzare e sviluppare idee velocemente. Ormai nella storia sono Autocad, Rhinoceros, 3D
Studio, Catia e molti altri.
Alla base di questi software ci sono algoritmi i cui principali ingredienti sono strutture-dati, cioè
matrici, lunghe stringhe di coordinate. Il metodo matriciale di trasformazione di punti in una
proiezione prospettica è geometricamente identico a quello usato nel Rinascimento e lo stesso modo in cui molti architetti usano i sistemi CAD in sostanza riflette le tecniche grafiche tradizionali.
Recentemente però si stanno affacciando nuovi software parametrico-generativi (come Top-solid, Paracloud e Generative Components) che, a differenza del CAD che è un puro strumento,
“collaborano” al risultato finale. Norman Foster, Frank O. Gehry, Zaha Hadid - solo per citare
alcuni degli architetti più famosi - si sono avvalsi di questi software per automatizzare problemi
complessi di progettazione, con molti vantaggi non solo in termini di tempo, ma anche nella
minuziosa definizione di tutti i dettagli, nel miglioramento del livello di prestazione degli edifici e
perfino nella possibilità di far emergere forme inedite, estreme.
Dal punto di vista matematico, controllare sistemi complessi come quelli architettonici è un
problema molto difficoltoso da affrontare; eppure la Natura, senza “conoscere” la matematica, nel tempo ha perfezionato organismi ben più complessi, come le diverse forme di vita. Traendo spunto da ciò, sono state elaborate tecniche computazionali basate sui principi dell'evoluzione naturale come gli algoritmi evolutivi che, sfruttando il potere e la velocità di elaborazione del computer, si sono rivelati capaci di comprimere i tempi dell'evoluzione e di far comparire strutture sorprendentemente complicate e interessanti.
Tra gli algoritmi evolutivi, una posizione speciale è occupata dagli algoritmi genetici sviluppati da John Holland, uno dei membri del Consiglio di fondazione del Santa Fe Institute, che ha provato ad applicare al calcolatore il procedimento dell'evoluzione naturale: viene simulata al computer la risoluzione di un problema prendendo spunto dal modo in cui la natura, secondo le teorie darwiniane, affronta la questione della sopravvivenza e dello sviluppo degli esseri viventi. In sintesi, si stabilisce il seguente parallelismo: il DNA di un organismo diventa la stringa di codice di un programma informatico che descrive la sequenza di operazioni da svolgere per risolvere un determinato problema; mentre la competizione degli organismi per la sopravvivenza diventa l’approssimazione dei programmi verso la migliore soluzione del problema stesso. Il computer ripetendo più volte e con minime variazioni tale sequenza genera un’intera “popolazione” di soluzioni possibili che vengono poi valutate in base a criteri stabiliti in partenza (cioè è applicata la cosiddetta “funzione di fitness”). In analogia con il procedimento di selezione naturale, che favorisce la riproduzione degli individui migliori affinché generino una nuova popolazione maggiormente adatta all'ambiente, il computer incrocia il “patrimonio genetico” delle soluzioni che hanno conseguito la valutazione migliore per ottenere una nuova “generazione” di soluzioni la cui valutazione media sarà più alta rispetto alla precedente. Questo processo continua finché viene raggiunta la soluzione ottimale. Quindi la generazione algoritmica è basata su regole semplici, ma può raggiungere risultati complessi; essa non procede con il “lento passo darwiniano” (Marvin Minsky), realizzando un altissimo numero di steps evolutivi in poco tempo da cui emergono soluzioni spesso inaspettate. Perciò gli algoritmi genetici sono risultati utili in molte discipline e recentemente sono stati introdotti anche nella risoluzione di problemi di progettazione architettonica che negli ultimi decenni, per quantità di informazioni e livello di complessità, hanno subito un incremento di difficoltà tale da non poter essere più gestiti con i metodi di progettazione tradizionali.
John Frazer, architetto e ricercatore della Cambridge University, per primo ha creduto nella
efficacia degli algoritmi genetici per trovare soluzioni ottimali ai problemi architettonici. In An
evolutionary architecture riconfigura l'architettura come una forma di vita artificiale soggetta a
processi evolutivi in risposta all'ambiente e alle esigenze dell'utenza e porta l'esempio di un
programma da lui sviluppato nel 1993 in collaborazione con Peter Graham presso l'Università di Ulster, in cui gli algoritmi genetici sono usati per disegnare colonne tuscaniche secondo rapporti proporzionali codificati che riguardano tutti gli elementi della colonna. Tali regole sono state tradotte in un programma informatico, ma per ciascuna delle proporzioni accuratamente specificate viene sostituito un “gene”, originando così una popolazione evolutiva casuale di colonne mutanti rispetto al canone dell'ordine tuscanico. A questo punto interviene la “selezione naturale”: il computer sceglie per la “procreazione” le colonne più vicine ai rapporti canonici che, incrociando il loro “patrimonio genetico”, originano una generazione successiva di colonne tuscaniche perfettamente proporzionate.
Varie sono state recentemente le sperimentazioni del design evolutivo, soprattutto nell'ambito del disegno industriale e nello studio dei modelli urbani. Ingeborg Rocker nel progetto Urban Adapter, presentato nel 2010 alla Biennale di Hong Kong sull'arredo urbano, ha “sequenziato” una panchina, descrivendola in un diagramma che scompone il progetto in un certo numero di componenti poi tradotti in codice. Da questa sequenza, individuati i punti in cui, attraverso l'applicazione degli algoritmi genetici, possono verificarsi mutazioni, la progettista ha ottenuto una popolazione di panchine generate al computer, tra le quali, utilizzando specifici criteri di fitness, sono stati selezionati gli individui “più adatti all'ambiente” e, facendoli interagire tra loro (crossover), sono emerse successive generazioni dell'arredo urbano-panchina sempre nuove e migliori in relazione al fitness predefinito.
In esperienze come questa viene integralmente traslata l'evoluzione darwiniana nella progettazione architettonica per la quale è scelta la medesima funzione di fitness che la Natura “applica” agli esseri viventi il cui obiettivo è di sopravvivere nell'ambiente. Una forzatura che presenta il limite di sopprimere quasi completamente il ruolo creativo dell'architetto, cui dovrebbe spettare il compito di guidare la selezione individuando le funzioni e gli scopi ai quali i modelli elaborati devono adattarsi per sopravvivere.
Altro limite attuale nell'applicazione di questi procedimenti sta nella complessità di fattori che si
intersecano nei problemi architettonici. “Sequenziare” una panchina o una colonna non presenta certo lo stesso livello di difficoltà della descrizione di un intero edificio con uno script di istruzioni in codice; così l'applicazione degli algoritmi genetici in architettura si riduce spesso a segmenti del processo architettonico, riferiti a problematiche edilizie circoscritte di tipo spaziale, strutturale o impiantistico. Per applicare proficuamente gli algoritmi genetici, agli architetti dunque non solo spetta il compito di codificare esattamente i problemi architettonici e di definire efficaci funzioni di fitness, ma anche di attuare un approccio di tipo olistico, in cui cioè il controllo della progettazione avvenga a tutte le scale, dalle parti al tutto e viceversa.
Mentre su questo fronte si procede lentamente, un utilizzo che si sta diffondendo degli algoritmi
genetici nell'ambito delle costruzioni è riscontrabile negli strumenti informatici attraverso i quali il computer diventa generatore di design, aiutando l'architetto ad indirizzare verso una soluzione
ottimale alcuni singoli aspetti della progettazione. Per esempio dal punto di vista strutturale
l'ottimizzazione comporta la riduzione al minimo del peso delle strutture grazie alla graduale
eliminazione della materia non collaborante. Questa metodologia risulta importante soprattutto nella progettazione di edifici di notevoli dimensioni e con una geometria molto complessa che non possono essere controllati con i metodi di calcolo tradizionali.
La potenza computazionale degli algoritmi genetici è stata cruciale per la progettazione di recenti straordinarie grandi strutture, come la copertura dell'Aquatic Center di Pechino (noto anche come il Water Cube) realizzato per i giochi olimpici del 2008, composta da 25000 sezioni di acciaio singolarmente dimensionate; o come la cupola della Great Court del British Museum di Londra disegnata da Norman Foster, che è formata da 1656 pannelli di vetro tutti diversi per forma e dimensioni.
Mutsuro Sasaki – strutturista che collabora con Arata Isozaki e Toyo Ito – ha ideato le “Flux
Structures”, elementi portanti le cui sagome, con un alto numero di passaggi compiuti da un
elaboratore che si avvale di un algoritmo evolutivo, si assottigliano raggiungendo, oltre
all'ottimizzazione strutturale, risultati formali interessanti: nel progetto di Isozaki, presentato al
concorso per la nuova stazione TAV di Firenze S. Maria Novella, il sistema trave-pilastro con
successive iterazioni si libera della materia non collaborante, fino a raggiungere una forma simile a quella di un albero.
Oltre al settore strutturale, molteplici sono anche le applicazioni degli algoritmi genetici orientate al perfezionamento delle performance impiantistiche e ambientali degli edifici. Per esempio Luisa
Caldas e Leslie Norfold del MIT hanno messo a punto uno strumento di progettazione generativa per la ricerca delle misure ideali delle finestre di edifici per uffici, tenendo conto non solo delle esigenze di illuminazione, ma anche delle prestazioni termiche, acustiche e strutturali. Sempre in ambiente accademico è stato concepito il software parametrico-generativo Generative Components, sviluppato da John Nastasi dell'Institute of Technology di New York e applicato per la progettazione delle strutture frangisole della Kwait Military Academy, del centro commerciale SanLiTun di Pechino e del complesso 39571 costruito a New Orleans dopo l'uragano Katrina.
Quindi l'uso degli algoritmi genetici in architettura ha elevato il grado di raffinatezza e perfezione
tecnologica di ciò che può essere realizzato dal punto di vista costruttivo. Tuttavia gli algoritmi
genetici possono essere usati anche come strumento di avanguardia per generare forme estetiche, espandendo oltre il reale le possibilità creative.
E' questo l'inaspettato dono che l'era digitale offre all'architettura. La “morfogenesi digitale”,
definita da Branko Kolarevic dell'Università della Pennsylvania come la “generazione di forme con base computazionale”, sta aprendo nuove dimensioni in architettura: gli algoritmi passano
attraverso milioni di operazioni al secondo per trovare una serie di soluzioni estetiche che estendono il pensiero del progettista in un mondo sconosciuto e inimmaginato.
Attraverso i metodi di progettazione generativa il computer diventa esso stesso progettista e
l'architetto “allevatore di forme”, come accade a Greg Lynn nel progetto “la casa embriologica”:
mentre il computer da un codice iniziale genera infinite variazioni del design della stessa casa,
all'architetto non resta che guardare sullo schermo le forme sempre nuove che emergono.
Con William Latham e Stephen Todd l'uso degli algoritmi genetici è diventato un vero e proprio
ramo della creazione artistica. Le loro opere di morfogenesi sono organismi artificiali che vivono, si riproducono e sviluppano all'interno del cybersapazio, realizzati grazie al software Mutator che impiega le leggi dell'evoluzione darwiniana per generare forme selezionate proprio secondo criteri estetici invece che in base alla compatibilità ambientale.
Sperimentazioni di questo tipo non producono architetture nel senso tradizionale del termine, ma forme astratte alle quali al momento è difficile attribuire una qualche funzione e che difficilmente si possono tradurre in architettura reale e pertanto restano nel mondo concettuale aumentando il nostro potenziale di astrazione.
Invece di prefiggersi obiettivi ben definiti come l'ottimizzazione strutturale o impiantistica, questa
architettura che potrebbe essere definita “contemplativa” o “metafisica” si diletta nel guardare le forme che aleggiano nell'universo computazionale totalmente impensate e forse addirittura
impensabili dalla mente umana, essendo infinitamente più ampie e varie dei modelli geometrici vecchi e nuovi ai quali siamo abituati. Geometrie non euclidee, teorie della complessità e del caos, automi cellulari, sistemi dinamici, auto-organizzazione, dinamiche non lineari e frattali sono solo un piccolo anticipo: il vaso di Pandora sta per scoperchiarsi.
L'idea di universo computazionale è superbamente raffigurata dal cono superiore della clessidra descritta in Genetic Space dall'architetto birmano-statunitense Karl S. Chu. Nell'immagine di Chu i due coni della clessidra rappresentano, rispettivamente, quello in basso la realtà fisica e storica e quello in alto l'universo computazionale che contiene tutto ciò che l'uomo può concepire e anche di più: l'insieme di tutti gli algoritmi possibili, ma non ancora computati nel nostro presente; tutte le condizioni di realtà compatibili con le leggi della natura e della fisica, potenzialmente esistenti, ma non ancora realizzate; tutte le specie di organismi viventi che l'evoluzione naturale farà emergere in futuro; la totalità dei libri che si potranno mai scrivere usando tutte le combinazioni di parole; tutte le melodie che si potranno mai comporre usando tutte le combinazioni di note; tutte le architetture possibili, anche quelle che non hanno alcuna connessione con qualcosa di già visto.. Naturalmente tutto espresso in bits.
Di queste meraviglie riservate all'uomo nei prossimi secoli o millenni possiamo avere già oggi
un'anteprima grazie all'intelligenza artificiale che, compreso il codice dell’evoluzione naturale, la simula ad una velocità nettamente superiore rispetto al tempo della storia cui siamo abituati,
affrettando così la realizzazione del nostro futuro. Questa protesi tecnologica permette a noi che
abitiamo nel cono inferiore della clessidra di penetrare nel cono superiore per contemplare le
architetture riservate al mondo a venire.
Non c'è dubbio che in un futuro più o meno prossimo le forme astratte del mondo concettuale
potranno essere portate nella realtà fisica. Per adesso, tuttavia, possiamo accontentarci di guardare per la prima volta ciò che questa specie di iperuranio computazionale ci offre, il che, come testimonia Stephen Wolfram che per primo l'ha esplorato, può essere estremamente eccitante.
Resta da verificare poi come queste nuove forme potranno essere utili per una prossima
applicazione nel mondo reale. Ma l'originalità di questa architettura concettuale, che è poi il suo
punto di forza, sta proprio nel fatto che non c'è uno scopo immediato, un'utilità pratica. Essa non è il prodotto di un processo evolutivo ottenuto gradualmente, passo passo, come avviene nella scienza che raggiunge la soluzione di un problema attraverso continue approssimazioni; piuttosto è come se ci trovassimo improvvisamente di fronte a tutte le soluzioni possibili. Il disvelamento di questo sterminato serbatoio di idee architettoniche ci permette di guardare oltre l'orizzonte che conosciamo, a cui siamo abituati, per aprirci a un mondo pieno di sorprese.
Il problema è completamente ribaltato: l'architetto ha a disposizione un'infinita varietà di forme che a prima vista sembrano prive di utilità pratica. Ma la mancanza dello scopo immediato diventa una sollecitazione, una sfida per il progettista cui compete di formulare l'obiettivo, di cercare la funzione che si adatti alla forma.
E' la dinamica inversa rispetto a come siamo abituati a lavorare: dal cercare una forma che assolva a una funzione, passiamo al cercare una funzione che si adatti a una delle innumerevoli forme che abbiamo a disposizione. Invece di avere un obiettivo e scopi programmati da raggiungere, la creatività dell'architetto può esplicarsi in modo più ampio e più alto. Proprio il concetto di “scopo” distingue bene i tre livelli di applicazione degli algoritmi
all'architettura fin qui descritti.
Al primo livello, che potrebbe essere definito pratico-strumentale, cioè quello dei programmi in uso - tipo CAD - lo scopo è chiaramente definito a priori dall'architetto o dal committente e il computer ne agevola il raggiungimento. L'orizzonte è quello della progettazione tradizionale: si inizia con uno o più obiettivi da conseguire (la qualità estetica, la funzionalità, la stabilità strutturale, l'efficienza impiantistica..) e gli algoritmi sono sfruttati per realizzare programmi funzionali a facilitare il raggiungimento di tali scopi.
Al secondo livello, quello dei programmi che si basano sugli algoritmi evolutivi e genetici, gli
obiettivi sono tendenzialmente indicati, ma si allarga l'orizzonte, si lascia al computer un margine di libertà per raggiungerli inventando la forma più adatta per soddisfarli. Qui l'esito è meno chiuso, l'algoritmo genetico può andare oltre le nostre aspettative.
Infine al terzo livello, quello dell'architettura concettuale, si oltrepassa l'orizzonte: lo scopo non è
più definito a priori, va inventato. L'architetto ha a disposizione tutte le forme cui deve però essere attribuita una funzione. Questo rappresenta una svolta, un balzo in avanti costituito dalla possibilità di inventare funzioni mai pensate prima. “Esplorare l'universo computazionale ci fa scoprire un mucchio di cose interessanti – avverte Wolfram -; poi bisognerà armonizzarle con gli scopi umani”.
Ovviamente questo è un livello al momento molto meno pratico rispetto al tradizionale lavoro
dell'architetto, perché richiede uno sforzo concettuale mettendoci dinanzi a qualcosa di mai visto prima. Tuttavia proprio qui probabilmente si trova lo slancio vitale per un'architettura che troppo spesso lamenta segni di debolezza.

 

M. Elisabetta Bonafede

M. Elisabetta Bonafede si è laureata in Architettura a Firenze nel 1990. In seguito ha collaborato con il Dipartimento di Progettazione come cultore della materia. Dal 1991 svolge l’attività professionale nel suo studio in Pistoia, tra l’altro partecipando a vari concorsi di idee. Recentemente si è dedicata all’esplorazione dell’ambito delle innovazioni tecnologiche in architettura e ha pubblicato saggi sull’argomento come:
Karl S. Chu: genetica, computazione e architettura, dicembre 2009; Estropico.org.
La realtà artificiale dei foglets, maggio 2010; Estropico.org
Suggestioni da Greg Lynn, settembre 2010; Estropico.org

 

 
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Ideazione e realizzazione Airaldi Giacomo - Luogo di pubblicazione: Italia - Hosting by: Aruba.it- Update: 15-Lug-2011