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L’occhio dentro la finestra altrui.

Sguardi, pedinamenti, peep-show inconsapevoli:

considerazioni a latere sullo sguardo e lo spazio dell’intrusione hitchcockiano.

Davide Manti , Nov.2002

 

 

"L'occhio scuro dell’assassino ingombra tutto lo schermo. All’interno distinguiamo una figura chiara, una donna leggermente claudicante, che si muove. Non per molto. Giunge al suo posto, nel luogo dell’appuntamento. Poi la sua faccia si comprime in un’espressione di terrore.

 - Chi è lei? Cosa fa? – un urlo, l’iride scura dello scrutatore si rilassa… Poi, più nulla. Il silenzio ingombra la stanza dello squallido motel. Niente luci. Alcun movimento sul pavimento buio presto occupato dalla sagoma delineata malamente da un tecnico della scientifica. Qualche fotografia scattata senza troppa enfasi. Un rilievo veloce poi tutto sarà archiviato. Le luci si spengono per l’ultima volta.

Dall’altra parte del cortile qualcuno osserva soddisfatto da un appartamento buio. La finestra socchiusa gli consente di spiare gli eventi. Poi cambia obiettivo. A pochi metri di distanza un’altra finestra si accende. Entra una donna bruna, piacevole a vedersi. Inizia a spogliarsi. Via la pelliccia, la maglia, la gonna leggera. Una musica proviene dal piano di sopra. Un giovane compositore alle prese con il suo pianoforte scordato. Qualcuno aggiusta una fotografia su un caminetto…

La prossima volta toccherà a lei.”"

 

 

Index:

 

Introduzione.

Alcuni Temi e princìpi fondamentali: il set e il visibile.

 

(i)Rappresentazione del dubbio.

(ii) Occasioni “unheimlich”: l’occhio negato.

(iii) Scopofobia vs. scopofilia.

(iv) L’invasione del privato.

(v) Intrusioni

(vi) Il visionario visto.

(vii) Come sottrarsi all’occhio.

(viii) L’essere Trasparenti.

(ix) Paura della Luce.

(x) La profondità dell’occhio.

 

Appendice: L’occhio scrutato/scrutatore.

16 Film dedicati al tema.

21 Scene cult.

 

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Introduzione.

Alcuni Temi e princìpi fondamentali: il set e il visibile.

 

Vedere… l’aldilà, vederci al buio, rimanere accecati dalla Luce intensa, non riuscire a mettere a fuoco o ignorare apposta l’inevitabile fuori fuoco, sentirci osservati, difenderci dall’intrusione e dallo “sguardo indiscreto” o al contrario voler essere trasparenti per dimostrare la nostra assoluta integrità morale...

Sono tutte condizioni ed esperienze che si fanno comunemente. Le medesime esperienze riconoscibili sullo schermo, come riconoscibili sono le appendici, gli apparati tecnologici, gli strumenti che ci permettono di operarle, a qualsiasi livello di complessità e oggi sempre più diffusi: macchine digitali, cineprese, teleobiettivi, telescopi, telefonini con fotocamere ecc.

 

Esse presuppongono tre elementi fondamentali

 

Occhio (+ Protesi) ßà Ambiente(topografia architettonica) ßà Oggetto

 

e il gioco della loro più o meno complessa interazione ci fornisce l’evidenza della situazione architettonico/esperienziale in cui ci ritroviamo immersi, sia un peep-show privato, lo scrutamento della superficie lunare, un set cinematografico, un cortile con finestre, un camerino lasciato aperto o dal vetro segretamente trasparente. Da tali situazioni abbiamo (in parte anche in toto se vogliamo, dipende dal – scusate - punto di vista…) i set del cinema di Hitchcock, Powell, De Palma, Borowczyk, Fisher, Lynch, Kubrick, Antonioni e tutti gli altri grandi visionari.

 

Questi tre soggetti possiedono una loro importanza per quello che viene definito la questione dei “frames”: dalla sociologia possiamo infatti mutuare tale caratteristica del contesto sociale che coinvolge ad un tempo l’esistenza dell’altro da sé, l’architettura dove agisce la collettività e, per proiezione, la propria condizione di “ingabbiamento”. Ovvero il dove si agisce quotidianamente e il dove vediamo “inquadrati” gli altri: la casa, il negozio, la città, ma anche la riquadratura di una finestra, il palazzo di fronte, il fondo di un corridoio o una stanza d’ospedale, un angolo di un incrocio, un tombino aperto, la balconata di un teatro ecc. Situazioni architettoniche dove ci ritroviamo (accorgendocene poi, per proiezione) anche noi assieme a tutti gli altri. Condizionamenti topografici che l’architettura opera sulla socialità in maniera attiva, consentendo o negando sguardi (per la propria opacità o trasparenza: pensiamo a una finestra o una vetrina con tendaggi o no), pemettendoci l’affaccio su fughe e prospettive urbane, piazze ecc. L’architettura cioè agisce da Set Dinamico che ad un tempo condiziona il contenuto (noi) ed è capace di rappresentarci (pensiamo ai grandi Palazzi delle Istituzioni Statali o delle Multinazionali).  

 

Ma la triade Occhio/Topografia/Oggetto può essere intesa in maniera non solo puramente materialistica. Nei film la tendenza è anzi quella di rivelare come proprio partendo da questa evidenza materialistica (quasi “scientifica”) la triade esperienziale tenda a rivelare l’altra scena ( “eine andere Schauplatz” di cui parlava Freud): il regno dell’ambiguo, dell’immaginario profondo e malato che innegabilmente l’esperienza dello scrutare, del cercare con lo sguardo anche l’illecito per il solo scopo di guardare reca con sé. E questa malattia (il guardare oltre, dentro l’illecito ecc.) presuppone appunto uno spazio dell’illecito (un appartamento privato, un buco della serratura) altrui e un mezzo (compresa l’immaginazione) come una protesi potenziante (la macchina ottica).

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(i)Rappresentazione del dubbio.

 

  “ Gli occhiali e lo specchio divengono l’immagine di uno sguardo che non è più un semplice mezzo perché l’occhio si congiunga con un punto dello spazio, che non è più puramente funzionale, trasparente, transitivo. In un certo modo questi oggetti sono sguardo materializzato od opaco, una quintessenza dello sguardo (Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti Milano, 1990).”

 

Possiamo affermare che moltissime delle opere più “perturbanti” del cinema sono il risultato di una sorta di voluta ambiguità di fondo che lascerebbe dubbioso lo spettatore sull’essere o non essere “soprannaturale” delle cose che vede rappresentate, illuse sullo schermo, lasciandoci a  volte delusi quando ad essere chiamate in causa in maniera “troppo” evidente, senza più quell’aura misteriosa derivata dal dubbio (è vero o no? Si tratta di un fantasma o no? ecc.) sono certe “entità ultraterrene”. Questo varrebbe almeno per quei plot appartenenti al  piano della “realtà-fiction”, mentre continuerebbero a mantenere le loro proprietà perturbanti quelli che sconfinano nel regno dello “psichico” come le allucinazioni, gli incubi, o certi ricordi spaventosi.

Ma il “piano d’ipotesi” (l’ambiguità tra il reale e il fantasioso) rappresenta infatti l’altro mezzo a disposizione del regista con cui vincere la nostra ostinata opposizione accrescendo, contemporaneamente, le probabilità di successo (cioè il perturbarci “felicemente”: è pur per questo che siamo entrati nella sala oscura del cinema…) e tenendoci ad esempio lungamente all’oscuro sulla vera natura dei presupposti sui quali si fonda il mondo che descrive. Oppure può astutamente e ingegnosamente evitare qualsiasi precisazione o spiegazione, fino all’ultimo (vedi ad esempio The Sixth Sense-Il Sesto Senso di M.N.Shyamalan, 1999, o The Others di A.Amènabar, 2001, per limitarci ai nostri ultimi anni, senza considerare quelle storie che si fondano su eclatanti coup de teatre, in realtà, solo banali trucchi di sceneggiatura per consentire allo spettatore di oltrepassare il muro dell’ora e mezza di proiezione…

Si confermerebbe così un certo discorso sul presunto primato della fantasia, nello specifico il primato della fantasia/fantasticheria sulle occasioni offertaci dalla realtà o anche da certe sue  rappresentazioni (per sostituzione analogica, vedi certi quadri o fotografie surrealiste) in cui tale facoltà umana prende il sopravvento. E ciò accade più spesso dove il gioco tra il visibile/invisibile rimane più ambiguo, quando cioè è l’occhio della fantasia ad accendersi, quando la stanza oscura fino a ora interdetta rimane misteriosamente socchiusa o improvvisamente manifesta l’intenzione di rivelare il suo contenuto…

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(ii) Occasioni “unheimlich”: l’occhio negato.

 

   Alcune di queste “occasioni” sono ravvisabili a proposito del “[…] silenzio, della solitudine e dell’oscurità, [per i quali] possiamo dire solamente che si tratta di fattori che contribuiscono all’insorgere dell’angoscia infantile, della quale la maggior parte degli uomini non riesce a sbarazzarsi del tutto (Freud, “Il Perturbante”, in Totem e tabù  e altri saggi di antropologia, Newton Compton, Roma, 1979)” ed è possibile raggruppare tali occasioni in “temi” ricorrenti ed aree problematiche.

 

Da tale analisi e dalle memorie di qualsiasi cinefilo, appare subito chiaro che in primo piano emergono tutti quei temi connessi all’invisibilità , al “vedere/non vedere” e alla metamorfosi, in una sorta di “doppio” rovesciato dell’esperienza cinematografica. Molte di queste opere  introducono infatti oggetti legati allo sguardo – specchi, lenti, occhi e occhiali, binocoli, fessure voyeuristiche, ritratti e riflessi (cfr. già il prof. Aldo Carotenuto, a proposito di Hoffmann i cui racconti farebbero continui riferimenti al mondo delle immagini e ai problemi relativi allo “sguardo”; ma al riguardo vi è tutta una discendenza di registi la cui questione fondamentale è per l’appunto il vedere e l’esser visti, il riprendere e l’esser ripreso da Hitchcock a Michael Powell a, ovviamente, De Palma)

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(iii) Scopofobia vs. scopofilia.

 

Perché oltre alla paura di essere guardati emerge anche il desiderio di essere guardati?

Freud risponderebbe che non esiste la questione: quella paura cela già in sé un desiderio e l’inquietante ne emergerebbe dalla rivelazione. L’antropologo Franco La Cecla individua questo desiderio (giocando ora a carte scoperte) nella voglia e bisogno di oggettività: “ Per un bisogno estremo di riconoscimento. Come se la vita privata da sola non si bastasse e per essere vera avesse bisogno di esser guardata. Nelle società tradizionali le biografie erano un’imitazione delle vite dei genitori, dei santi, degli eroi, dei dannati. Adesso sono biografie di gente sola che ha bisogno di autentificazioni e che, forse, compra cose per assomigliare a qualcuno che vede nei manifesti.” (La Cecla  F., Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Bari, 2000, p.67 e sgg: L’invasione del privato).

 L’occhio della telecamera non è identificato con quello di un regista supremo che tutto vede e ascolta (una sorta di dio) ma questa volta con quello che rappresenterebbe lo specchio. Perché oggi lo specchio “non rimanda più nulla” (o meglio, il nostro volto visto sempre più imperfetto, da correggere), ed è sostituito dal come dovremmo essere della pubblicità e degli altri, che ti osservano:

 

 “La grande paura di fondo è, ancora una volta, quella di sparire senza lasciare traccia, cosicché in questo momento della Storia dove chiese, partiti e utopie appaiono drammaticamente mischiati, non restano che milioni di corpi soli e neutri seduti davanti allo schermo a commuoversi della sceneggiatura della propria vita. (Clelia Pallotta, comunicazione al Seminario di Tecniche della Comunicazione Pubblicitaria, Politecnico di Milano, 1999)”

 

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(iv) L’invasione del privato.

 

 

Orribile a dirsi ma è così: i linguaggi e le tecniche della pubblicità interagiscono con l’esistenza delle persone. Ogni stato d’animo, passione sentimento emozione, sentito o anche solo ipotizzabile sia ormai collegato a uno o più segmenti di mercato occupato da un numero sterminato di merci, materiali e immateriali, per cui quelle emotività recitano la parte di target. Merci appositamente pensate e prodotte per stimolare, sorreggere e alleviare attraverso il consumo. Pensiamo ad esempio a certi moderni spot che presentano (magari rivisitati da qualche mirabolante effetto digitale) sequenze “rubate” da celebri film e riproposti per vendere automobili o dadi per il brodo. Oppure a certe tendenze di reality o talk show con personaggi assolutamente tipizzati e storie un po’ troppo complicate per poter essere quotidiane (come invece si dichiarano).

Questo ci sembra possibile facendo leva proprio sul potere rappresentativo delle immagini le quali presuppongono, secondo la già citata prof.ssa Pallotta, uno spazio del privato “[…] talmente ben costruito, talmente accattivante ed affascinante che in qualche modo si sovrappone al privato reale e permette di sopportarlo […] un privato sceneggiato; perché gran parte di quelle storie sono inventate e la gente che ci va è pagata.

Ma nel rapporto emotivo di chi consuma quei programmi, quei sentimenti esposti diventano reali perché rispondono a quel bisogno di condivisione che una volta era  rappresentato dalla comunità dei vicini.”

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(v) Intrusioni

 

Il fatto di aver spostato il confine del privato assumendovi all’interno spazi e funzioni un tempo delegate all’esterno (consentendovi anche l’intrusione, per esempio del lavoro ora possibile anche tramite computer, o degli acquisti tramite TV o Internet) ha modificato dunque il rapporto tra le persone con la conseguente mutazione del sentire comune della gente.  Diciamo che l’utilizzo sociale del sentire è tendenzialmente mercificato. E quando un linguaggio diventa così diffuso, così popolare, allora il senso che c’è dentro quelle parole [quelle immagini] diventa tuo. C’è una sorta di “espropriazione della naturalità delle esperienze”, una finalità preordinata nell’uso dei sentimenti.

I sentimenti avrebbero subito una sorta di “classificazione”, applicabile anche al cinema, pensiamo al cinema massificato di Hollywood ma anche a quello orientale, Bollywood ecc., quello più marcatamente “industriale”, il quale mirerebbe alla costruzione della realtà perfetta, quella del Truman Show ad esempio. Come l’iperrealtà citata da Baudrillard, il nostro quotidiano e quindi quello cinerappresentato appare sempre più come una forma di realtà organizzata-simulata-virtuale che ha però degli effetti “veri”. Ha ad esempio l’effetto di modificare le relazioni sociali. Si vorrebbe che i media tendano a sostituire sempre di più la socialità fisica, il corpo a corpo. Tutto infatti verrebbe mediato, anche la lite. Ciò è teso a dare l’impressione di armonia e di pacifica buonistica risoluzione di conflitti, in una parola: di rimozione, tutto sommato.

 Il fatto che rimane alla base è che il pubblico non si può scontentare, e chi ha capitalizzato quella finzione di realtà deve avere un guadagno: il pubblico vuole essere spaventato? Gli daremo l’orrore. Vuole la lite televisiva: ecco pronto il format ed uno stuolo di volenterosi attori disoccupati pronti ad incarnare i Contenders (film, D.Minahan, 2001,).

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(vi) Il visionario visto.

 

  Ma anche, spostando l’idea dall’oggetto osservato a chi lo osserva: colui che è capace di “vedere” o di avere accesso a cose che la maggioranza della  gente non percepisce e ignora, appare il più delle volte condannato dal gruppo e dalle circostanze.

 

“ Se è vero che c’è unvedere ciò che altri non vede’, che si configura come un pre-vedere (e per il quale, la storia ci insegna, il futuro solitamente certifica ciò che l’uomo di genio ha anticipatamente percepito) è altrettanto vero che essere unici testimoni di una ‘esperienza dei limiti’ significa essere esposti alla sofferenza e all’incomprensione [pensiamo ai fenomeni di “Pre-Morte” o alle varie esperienze “ufologiche”, n.d.a.]. Il visionnaire diviene per il collettivo un’incarnazione maledetta, un portatore di follia, un malato”(Aldo Carotenuto, Il Fascino discreto dell’Orrore, Bompiani, Milano, 1999).

  

 Che cosa sarebbe in grado di vedere il “visionario”, a cosa avrebbe accesso l’artista, il regista ecc., letteralmente esposto a pubblico ludibrio, che gli altri non vedono? Dove non possono entrare? Nei mondi del fantastico, quegli spazi “oltre” o “dietro” un visibile meramente rappresentato, in “ […] Spazi che introducono aree buie da cui qualsiasi cosa può emergere. (Jackson, Il fantastico, la letteratura della trasgressione, 1981, cit. da Carotenuto, op.cit., p.49)”. E i suoi mezzi tecnico-espressivi vanno a coincidere con quelli sempre più diffusi e comuni con cui il moderno voyeur può permettersi di rubare immagini di altrui (oggettivizzati) in luoghi sempre più set (chiese, case, campagne, mare, montagna, hotel delle vacanze ecc.) e comporre così un’ossessione che si chiama home movie, diapofilm, foto di matrimoni, snuff

 

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(vii) Come sottrarsi all’occhio.

   

 

    Anche il teorico dell’architettura Anthony Vidler individua, nel suo saggio del 1992 “Architectural Uncanny” [L’inquietante Architettonico], l’elemento capace di predisporre l’animo alle minacce e alle paure  dell’ignoto nei luoghi del quotidiano: la paura del buio, o meglio dello spazio buio, dove il nostro principale senso viene annientato o anche solo parzialmente occultato come nelle situazioni di penombra notturna, all’aperto ad esempio, inquietanti per via delle mutazioni che avvolgerebbero tutte le cose sotto la tenue luce della luna. 

  Nel buio si perde l’orientamento, la percezione dello spazio. Gli altri sensi risultano amplificati e, in un certo modo, allertati e quindi sensibilissimi alle minime variazioni e segnali immediatamente interpretati come di pericolo. Al buio totale ci sentiamo quasi totalmente indifesi,  in balìa di qualcosa  (ecco l’elemento inconscio accennato poco sopra): qualcosa o qualcuno che a differenza di noi è avvertito come vedente e quindi capace ed intenzionato ad offenderci.

Una paura il più delle volte irrazionale e che non sembra così facile da superare anche da adulti, nonostante Freud la consideri principalmente una manifestazione di angoscia infantile (Freud, Tre saggi sulla sessualità, 1905 [1] ) legata alla mancanza di una persona amata, “Hanno paura del buio perché nel buio non  possono vedere la persona che amano; e la loro paura si attenua se nel buio possono tenere la mano di tale persona (Freud, op.cit., p.565)”. Ma non dovrebbe sfuggire il fatto che, in questa stessa considerazione, la paura scaturisce sì dal non vedere (e non solo qualcosa o qualcuno, ma dal non vedere nulla nonostante gli occhi spalancati), ma anche che in quello stesso nulla appaiono comunque, come ingigantite dentro di noi, figure il più delle volte senza forma legate al senso della minaccia, dell’allarme, del pericolo. Lo spazio buio si popola di “presenze” sconosciute amplificate da piccole tracce che i nostri sensi, allarmati, colgono, come un piccolissimo suono, una mosca o un fruscio sospetto, un tonfo che assomiglia ad un passo, un sibilo scambiato per un sospiro, generando come una piccola palla di neve la valanga del panico.

Ma è possibile porsi facilmente anche dalla parte dell’aggressore. Consideriamo ad esempio alcune sequenze di Rear Window, di Alfred Hirchcock. Il protagonista sta spiando le mosse sospette del vicino, coinvolgendo nelle sue congetture la fidanzata e la governante. Nella scena dell’anello e dell’intervento della polizia egli viene scoperto dall’omicida perché la luce della sua stanza è accesa, e può essere visto dall’esterno. Non appena la spegne egli si nasconde, si occulta. Può guardare senza essere visto. Così nel finale, sentendosi ormai in pericolo, spegne la luce per rendere più difficoltosa la vendetta all’omicida, usando subito dopo flash luminosi per impedirgli la visione. In questo caso i termini in gioco sono la fisiologia dell’occhio, il desiderio di nascondersi e l’uso del buio o del surplus luminoso che vanno così a coincidere nel significato. Altra situazione di vittima-carnefice dove entra in gioco l’altro tipo di suspence (quella che abbiamo descritto come “paura d’esser aggrediti”) è nel finale di Il silenzio degli innocenti, di J.Demme, questa volta con due situazioni percettive opposte (e l’identificazione in soggettiva alternata con la vittima e l’aggressore) e l’uso di un apparecchio a raggi infrarossi.

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(viii) L’essere Trasparenti.

 

   Prendendo le mosse dalle indagini di M.Foucault, nella prima metà del secolo si spostò l’indagine sulle regole apertamente politiche dello Spazio Trasparente, come espressione al massimo grado della possibilità ed attuazione di “controllo totale” (Bentham) e del recupero di quell’attenzione all’Igienico, proprio di Le Corbusier e dei modernisti in genere, così come per certe soluzioni scenografiche hollywoodiane rappresentanti la grandezza e “pulizia morale” delle Istituzioni Statali, come nel caso dell’ultimo Spielberg, Minority Report, 2001, ed i suoi interni vitrei e luminosi (il commissariato ne è un esempio lampante), assolutamente all’opposto di quelli analoghi (nelle funzioni) di Seven, D.Fincher, completamente ottenebrati, incupiti da oscurità diffuse e conseguenti incertezze geografiche: dove finiscono i corridoi del commissariato, della biblioteca o delle buie camere dei delitti?

A cavallo dei due secoli precedenti si pensò che la trasparenza potesse estirpare il “dominio oscuro e oscurantista del mito, del sospetto e della tirannia, ma anche di tutte le istanze irrazionali (Vidler)”

Da tali presupposti sbocciarono quelle “griglie razionali” e quegli atteggiamenti sociali (e quindi spaziali) di chiusura ermeticapre-privacy”, che sarebbero dovute essere proprie delle Istituzioni (ad es. gli ospedali, le prigioni ecc.) dotate di aperture

 

“[…] chirurgicamente determinate per la circolazione della luce e dell’aria; il design terapeutico degli insediamenti e delle abitazioni  di massa, la loro capacità di strumentalizzare le politiche di sorveglianza. (Vidler, op.cit.)”

 

Insomma una generalizzata “Trasparenza Universale”. Ma verso cosa si andò incontro?

 

  “[verso] una società ascetica, che cioè si priva di un rapporto affettivo con le cose e sostiene che le operazioni principali della nostra vita non hanno bisogno di un rapporto con dei luoghi determinati. […] Una tale impostazione astratta della vita risponde bene alla defisicizzazione e delocalizzazione progressiva dell’ambiente ‘moderno’. Le reti di relazione tra persone non si sviluppano più per piazze e strade, ma grazie a  linee telefoniche, a messaggi postali, a immagini teletrasmesse, a terminali informatici. La fisicità dei rapporti si è diradata in favore di una efficienza nello scambio di simulacri della fisicità, quali la voce per telefono, la scrittura, le immagini e altre tracce, come le merci, il denaro. […] Eliminare la differenza dei luoghi è una vecchia soluzione. […] Il funzionalismo dell’edilizia moderna si basa sull’assunto che il cittadino non deve perdere tempo con una relazione troppo complessa con il suo ambiente. Basta che il suo ambiente funzioni, soprattutto da un punto di vista igienico […] Questo […] implica l’anonimità delle periferie. (La Cecla, op.cit.)”

 

   Si può studiare quindi da un punto di vista storico il mito del potere attraverso la trasparenza e la griglia razionale complice evidente del progresso tecnologico e della sua utopistica applicazione nell’architettura e nell’urbanistica, nonchè ovviamente nella scenografia cinematografica.

 

Oggi, l’abbattimento dei muri, l’eliminazione dell’ostacolo opaco costituisce, ad es., la metà delle ristrutturazioni interne degli appartamenti abitativi e non. Le stanze, secondo ultime tendenze, diventano multiuso e le pareti non vogliono racchiudere più la vita intima di una persona o di una famiglia. E oltre ai muri nella post-modernità cadono, una dopo l’altra, tutte le barriere dello spazio personale. Come in una sorta di “pubblicità del privato” (La Cecla) iniziata con l’installazione del primo apparecchio telefonico in una casa individuale, all’inizio del900; solo che allora esso era appeso nell’ingresso vicino alla porta (come testimoniano numerosissimi film europei degli anni ’40). Segno evidente che lo spazio casalingo era un’altra cosa: la soglia aveva ancora il significato “filtrante” tra pubblico e privato, mentre l’ansia del controllo mediante trasparenza oggi  può esser confusa con l’aggressione dall’esterno. “La porta non basta a proteggerci. La tecnologia e i media hanno modificato la condizione del privato. Tutte le cose del mondo entrano in casa e tutte quelle di casa escono nel mondo”, pensiamo al telefono, oggi posizionato in ogni stanza e anzi, al cellulare che ci segue per ogni dove, e poi la radio, , il fax e il computer traboccanti di così tante informazioni da vanificarle, la web-cam e la televisione: ribalta del privato oggi all’ennesima potenza, dove il cittadino, preso dalla perversa ansia di comunicazione, pare “senta il bisogno” di andare ad esibirsi nell’arena per raccontare di sé – almeno per 15 minuti - sul piccolo schermo che arriva anche a fingerlo,  il privato,  inventandolo  di  sana  pianta  in  alcune  trasmissioni,  mimando  una   verosimiglianza, questa sì “cinematografica”, d’infinita perfezione grazie all’abilità degli autori e sceneggiatori.

Tutto ciò partirebbe da una “voglia insperata di autenticità” (La Cecla), anche se in vetrina essa pare rispondere all’istanza “mitologica” cui in realtà apparterrebbe: “Anche l’autenticità è un mito. Come sapevano bene i surrealisti, qualunque cosa può essere autentica, anche un falso. (id.)” Ormai la tv vomita sentimenti e meschinità personali più vere del vero. Giovani, vecchi, donne e bambini entrano nella scatola a spiattellare i banalissimi fatti loro, per non parlare dell’orrore servito caldo dalle seguitissime Real tv e telegiornali-show: l’invasione degli sguardi è cominciata.

Molti programmi di tendenza in questi anni possiedono la forma di real soap. Gente più o meno comune scelta tra migliaia di volontari sono votati allo svelamento delle loro intimità. La “Casa di vetro” (già descritta da Eisenstein nel ‘29 in un suo soggetto per un film mai realizzato)  aperta stanza dopo stanza agli sguardi voyeur di chi, attraverso telecamere osserverà – pagando – senza essere visto. Sembra un’altra forma di Peep-art teorizzata dal De Niro dei primi film di Brian De Palma. Può rubare fotogrammi proibiti entrando quando vuole nel salotto, in bagno, in sauna, in camera, spiando con mano sapiente di regista (anche questo può fare il satellite…) le vite di chi le ha messe in vendita. In una situazione limite con la perversione e la psicosi, pur d’essere lì i personaggi accettano tutto, scoprono angosce, cattiverie, paure inganni e frustrazioni legate alle dinamiche di ciò che si può definire un “gruppo confinato”, finora prerogativa dei Kammerspiel tedeschi degli anni ’30 o dei film western, quelli di accerchiamento di un fortino da parte degli indiani – poi trasposte mirabilmente nel cinema del “confinamento” di Hitchcock, di Carpenter e di qualche loro epigono hollywoodiano. Situazioni da cavie, topolini da laboratorio od oggetti per lo show. Cosa muove questo dispendio di energie, capitali, desideri? Sara West (una delle prime abitanti delle “case di vetro” su Internet che mostrava la sua vita privata per 50 sterline alla settimana) spiega: “ Mi è piaciuta l’idea di diventare un oggetto di adorazione universale. Penso che sia il miglior modo per diventare famosa e trovare nuovi amici”. L’impatto e l’interesse per questi “oggetti-spettacolo” è enorme se osserviamo l’audience stratosferico (100 milioni di spettatori alla settimana per esempio per osservare in America “Jennifer” nel ’99) o gli ingorghi di traffico provocati  a Santiago del Cile da Manuela Tabor, esposta nella casa di vetro (questa volta realmente di vetro) dell’architetto De Souto Morales nel 2000. Progetto poi sospeso a causa di quelle imprevedibili conseguenze di “disordine sociale”.

Una comparsa del film culto Truman Show di Peter Weir, 2000, dice en passant : “Per me non c’è alcuna differenza fra la vita pubblica e la vita privata, la mia vita è il Truman Show (“True Man Show”, spettacolo dell’uomo vero) e il Truman Show è uno stile di vita, una vita esemplare”.

Ma se per Jennifer o Sara si potrebbe ragionevolmente ritenere che fonte dell’universale interessamento risiederebbe nella loro manifesta avvenenza, cosa spingerebbe un essere comune  ad essere attratto dalla vita comune di un altro essere comune, anche non “esteticamente corretto” per intenderci; perché questa possibilità di esperienza non ci fa orrore ma piace, tanto da spingerci a comprare prodotti che eventualmente egli sponsorizza? Perché fa audience e non manicomio?

 

Per Michel Foucault il conseguente paradigma spaziale (lotta tra Luce e Buio, Trasparenza e Opacità) fu costruito da una iniziale Paura, quella propria dell’Illuminismo nei confronti dello “Spazio buio, la noia e l’ansia, che annulla la piena visibilità delle cose, dell’umano e della verità.”

Era appunto la grande paura del buio che portò il tardo ‘700 ad esplorarlo, tramite l’interesse manifesto ed il fascino per le aree ombrose, i muri di pietra sopravvissuti (ma anche ricostruiti…), l’oscurità, i nascondigli e le prigioni segrete: tutto il negativo cioè di quell’esigenza di trasparenza e visibilità.

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(ix) Paura della Luce.

 

 

Fotofobia (e Foto-ipersensibilità la malattia del Vampiro e dei due bambini/fantasmi di Nicole Kidman in The Others di Amènabar): si può avere “paura della luce”? Se tale parametro annulla, cancella inondando tutti gli altri parametri audio(tacto)visivi è chiaro che il risultato è, più che paura, inquietudine da disorientamento visivo, non ritrovando parametri spaziali che il bianco accecante (di nuovo l’interdizione visiva, a cui si giunge però dalla strada opposta alla precedente) annulla sostituendovisi interamente. Nel cinema, situazioni di tale genere vengono evocate dalle stanze o ambienti completamente bianchi, dove i personaggi sembrano essere sospesi nel nulla luminoso di una luce onnipresente e indagante. Nel film di Gorge Lucas, THX 1138 - L’uomo che fuggì dal futuro (1971) i due amanti fuggenti si ritrovano confinati dall’autorità terrestre in uno spazio completamente bianco e annullato, dove qualsiasi particolarità è bandita e dove nient’altro che non sia chiaro, luminoso, retto, può sussistere. Ai due così non rimane altro che abbracciarsi prima della separazione. Situazione analoga la ritroviamo in un passaggio di Matrix, 1999, dei F.lli Manchewski (il programma omonimo viene messo in stand-by e la scenografia si annulla in un bagliore accecante).

Ma, rimanendo tra i “capostirpe”, nel Carmelo Bene di Un Amleto di meno (1973) il principio di confusione si attua nel guardaroba teatrale mostrato come collezione coloratissima di oggetti in un ambiente luminosissimo e bianchissimo, dai confini incerti, ancora una volta cancellati. La cancellazione dei tratti particolari di una scenografia come espediente confusionale e in antitesi con qualsiasi determinazione morale o religiosa “alta” della luce  viene  continuamente usata dai cineasti in molte maniere. Il finale “accecante” di Greed di Stronheim ad esempio. Shining di Kubrick, anche: tutto l’orrore delle stanze dell’Overlook si materializza non nel buio gotico a cui i mostri e le haunted houses della Universal (dagli anni ’30 in poi) ci avevano abituati, bensì nella luccicanza dei vari ambienti a cui l’aspetto scenografico stesso rimanda (la Gold Room, i bagni, l’androne con il caminetto acceso, la neve bianchissima degli esterni e del labirinto, i metalli scintillanti delle enormi cucine). Il biancore “terribile” dei bagni (con un curioso cortocircuito, questa del bianco, con l’idea di colore funebre per eccellenza in Oriente), dove l’orrore può erompere cioè in tutta la sua evidenza, e il sangue è ancora più rosso nel caso di omicidi violenti, questa evidenza bianca la ritroviamo nella doccia di Psycho (accuratamente ripulita da Norman Bates) e nelle innumerevoli scene-citazioni dei sequel. Nel secondo capitolo, ad es., diretto nell’82 da Richard Franklin, dove l’omicidio non si verifica come nel prototipo hitchcockiano ma è assai più orrendamente rivelato dall’intasamento “ematico” dei sanitari, scena ripresa uguale dal finale rivelazione “shining” di La Conversazione, di Francis Ford Coppola 1974, oltre che post-modernamente riutilizzate anche da Brian De Palma in Vestito per uccidere, 1980, e Scarface, 1983, con la quasi insostenibile scena della vivisezione nella vasca da bagno, e da Le Verità Nascoste (What Lies Beneath, 2000) di R. Zemeckis le cui sulfuree scene di visione medianica e tentati omicidi si attualizzano proprio negli arredi e nella vasca del luminoso e vaporoso bagno della villa. [2]  

Il discorso ritorna poi sull’uso della luminosità eccessiva e cancellante anche per il caso delle nebbie e vapori bianchi che confondono, sotto tale lettura assai simile al caso dell’oscurità, dove s’interdisce la visione e la possibilità di difendersi. Il fumo e la nebbia che cancella è uno dei principali mezzi di confusione delle variabili (già affrontato da Vidler nel suo Architectural Uncanny) e l’utilizzo nei film ne giustifica principalmente due situazioni o passaggi chiave del plot: il salto temporale in avanti e indietro (ad esempio nel noir, come in La donna del ritratto, F.Lang, 1944, o in Le catene della colpa- Out of the Past, J.Tourneur, 1947), e la messa tra parentesi di una sequenza astratta dal contesto narrativo tramite cancellazione del profilmico di disturbo, come nelle scene della nebbia nel già citato The Others, di Amenabar, dove la protagonista ritrova misteriosamente il marito partito in guerra. O ancora in Deserto Rosso, 1964, di Michelangelo Antonioni, nel momento in cui Giuliana, la protagonista Monica Vitti, vi si perde volontariamente negandosi alla vista degli amici. Cancellazione del set-fondale profilmico che avviene anche nel successivo Il Mistero di Oberwald, 1981, uno dei primi esperimenti di ripresa e di regia elettronica, durante il dialogo tra amanti che si situa in uno spazio astratto, azzurro, in dissolvenza elettronica dalla stanza e dagli arredi del contesto.

Questo uso del fumo, della nebbia, della luce e del buio è finalizzato espressamente per disorientare, i protagonisti e il pubblico, proprio come accadrebbe in tali frangenti nell’esperienza quotidiana.

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(x) La profondità dell’occhio.

 

Un paradosso dell’esperienza:

 

“La profondità di campo dell’obiettivo permette la proiezione sul piano di un parallelepipedo di realtà uniformemente netto. Indubbiamente questa nettezza sembra, a prima vista, essere quella stessa della realtà: una sedia non è sfocata perché non ci mettiamo a fuoco su di essa; è dunque giusto che sia a fuoco sullo schermo. Ma l’avvenimento reale ha tre dimensioni; ciò sarebbe fisiologicamente vedere simultaneamente netti il bicchiere di veleno, in primo piano, sul tavolino da notte di Susan Alexander Kane [ma anche il gufo e l’automobile in Blow out di De Palma, N.d.A.],e la porta della stanza all’estremo limite della prospettiva. In realtà, saremmo costretti a cambiare la messa a fuoco del nostro cristallino […] (Bazin, Che cosa è il cinema? Garzanti, Milano, 1999 (nuova ed.)., p.102)”

 

 Tuttavia noi percepiamo il quadro totalmente a fuoco non come rappresentazione antinaturalistica ma come ricostituzione di un’immagine mentale integrale ed esplorabile con l’intorno di attenzione costituito dall’intersecarsi del piano ‘geometrico’ dello schermo proiezione con l’asse d’interesse e focalizzazione visiva:

 

“Questo significa che il lieve trucco implicito nell’immagine cinematografica uniformemente netta non va contro il realismo, ma al contrario lo rafforza, lo conferma ed è fedele alla sua essenza di ambiguità. Esso concreta fisicamente l’affermazione metafisica per cui tutta la realtà è sullo stesso piano [psichico, n.d.a.]. Il lieve sforzo fisico di aggiustamento  maschera spesso, nella percezione, l’operazione mentale che gli corrisponde […]. Al cinema, al contrario, come in quei ritratti del Quattrocento in cui il paesaggio è netto quanto il volto, lo spirito non può sfuggire alla purezza del suo atto di scelta, i riflessi sono distrutti e l’attenzione viene restituita alla responsabilità della coscienza. (ibidem)”

 

Superato questo punto possiamo elencare le seguenti peculiarità dell’inquadratura cinematografica, riassumendole in  punti principali, interpretabili perché no, anche come un ipotetico sistema di assunzioni per la progettazione del décor di un film:

 

- L’oggetto ripreso dell’inquadratura ha una corrispondenza formale/percettiva con il piano reale. Tale rapporto di corrispondenza biunivoca deriva dalle sue proprietà luminose rese evidenti  dalla “scrittura di luce” (l’essenza fotografica del cinema).

- L’oggetto ripreso dell’inquadratura assume un significato di indicazione più che di raffigurazione: l’inquadratura rivela cioè una intenzionalità a monte dell’atto rappresentativo, oltre che un’intenzionalità simbolica legata all’oggetto che così “indica” (è un segno).

- La profondità di campo fotografico è affine a quella del cristallino oculare. Qualora il campo sia “all’infinito” la superficie dell’immagine risulterà interamente nitida e l’essere a fuoco o no viene assunto dalla possibilità di fissare l’attenzione solo su certe parti dello schermo (si vede così materializzato perfettamente la sinonimia linguistica tra le espressioni “mettere a fuoco”, “focalizzarsi su” e “prestare attenzione”, guardare).

 

“È per questo che la profondità di campo non rappresenta una caratteristica dell’operatore, come l’uso dei filtri o un certo stile di illuminazione, ma un’acquisizione capitale della regia: un processo dialettico nella storia del linguaggio cinematografico.

E non si tratta solo di un progresso formale! […] essa influenza, assieme alle strutture del linguaggio cinematografico, anche i rapporti intellettuali dello spettatore con l’immagine, e quindi modifica il senso dello spettacolo.” (Bazin, op.cit., p.88)

 

L’effetto stereoscopico è ottenibile anche con la visione monoculare (la visione è, abbiamo constatato, psicologica):

 

“Noi non dobbiamo vedere la profondità nell’inquadratura, poiché è noto che l’effetto stereoscopico si ottiene con la visione normale. È accettata l’opinione per cui la visione stereoscopica si ottiene essenzialmente utilizzando ambedue gli occhi. Ora, al cinema, noi vediamo le cose con un occhio solo, quello dell’obiettivo, e perciò anche lo schermo dev’essere piatto. Ma in realtà la profondità viene percepita anche così. […]Fatto sta che ormai ci siamo abituati  allo schermo e, nel riconoscere gli oggetti che vi appaiono, attribuiamo loro il carattere tridimensionale che è loro proprio. La scenografia comincia a vivere sullo schermo soltanto quando ottiene un effetto di profondità, quando i personaggi vi camminano, quando viene per così dire consolidata. […] (Victor Šklovskij, “Le leggi fondamentali dell’inquadratura cinematografica”, in I Formalisti russi)”

 

Infine la “teoria delle attrazioni” di Eizenstejn, essenzialmente espressione degli effetti del montaggio, il quale invece di “suggerire” un’emozione allo spettatore, essa la è. [3]

 

La rappresentazione sullo schermo per Bazin è principalmente convenzione, ma noi ci sentiamo di aggiungere, assieme al pensiero sulla Luce e sull’occhio, sul suo sguardo consentito all’interno del set (anche sociale) da parte degli studiosi affrontati in questo articolo, che essa gioca e costituisce per il pubblico fruitore anche credenza, magia dell’esistente, metodo conoscitivo, emozionalità intuitiva, piacere estetico. Il cinema, il Mondo, tutto ciò che si può percepire coscientemente e no, getta l’uomo in una serie infinita di associazioni e riconoscimenti felici, divenendo così spettatori emozionalmente attivi.

 

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appendice: L’occhio scrutato/scrutatore.

 

16 Film dedicati al tema:

 

- Film (1965)di S.Beckett/A.Schneider

- The Spiral Staircase (1946)di R.Siodmak

- Dark Passage (1947) di Delmer Daves

- David Holtzman's Diary (1968) di J.McBride

- Rear Window (1954)di Alfred Hitchcock

- Vertigo (1958)di Alfred Hitchcock

- Peeping Tom (1960)di M.Powell

- Blow Up (1966)di M.Antonioni

- 2001: A Space Odissey (1968)di S.Kubrick

- Hi Mom! (1970)di B.De Palma

- Someone is watching me (1978) di J.Carpenter

- Altered States (1980) di K.Russell

- The Dead Zone (1983)di D.Cronenberg

- Body Double (1984)di B. De Palma

- They Live (1989) di J.Carpenter

- Tesis (1996) di A.Amenabar

 

 

21 scene Cult:

 

- la "cura Ludovico" in Arancia Meccanica (S.Kubrick, 1971)

- incipit da Un Chien andalou (L.Buñuel, 1929)

- le soggettive dell’alieno in  It came from outer space (J.Arnold, 1953)

- la scena del labirinto guardato da Jack Nicholson in Shining (S.Kubrick, 1980)

- I Titoli di testa di S.Bass per Vertigo (A.Hitchcock, 1958)

- finale da Sisters (B.De Palma, 1973)

- la visione finale da Zabriskie Point (M.Antonioni, 1970)

- il fulminante occhio nel cielo in Rhapsody in August (A.Kurosawa, 1991)

- le trasformazioni “a vista” di K.Shell in Destination Moonbase Alfa -2°serie (G.&S.Anderson, 1975)

- l'occhio inseguitore alieno all'interno della casa in War of the Worlds (B.Haskin, 1953)

- il peep-show di K.McLachlan dall'armadio di Velluto Blu (D.Lynch, 1986)

- l'intensissimo peep-show nel pre-finale di Paris-Texas (W.Wenders, 1984)

- finale da Professione: Reporter (M.Antonioni, 1975)

- L'occhio che si affaccia dal cervello operato in The Dark Half (G.Romero, 1993)

- l'occhio ingurgitato (e sua soggettiva) in La casa II (S.Raimi, 1987)

- la soggettiva a infrarossi del killer che si avvicina a J.Foster in Silence of the lambs (J.Demme, 1991)

- L'ingrandimento televisivo dell'occhio di Laura Palmer nel serial tv Twin Peaks (D.Lynch, 1990)

- L'occhio rotolante di Cruise in Minority Report (S.Spielberg, 2001)

- Lo sguardo vuoto come lo scarico della doccia nel celeberrimo omicidio in Psycho (A.Hitchcock, 1960)

- Lo sguardo che uccide nel finale catastrofico di Carrie (B.De Palma, 1976)

- La pupilla del Tirannosauro al finestrino dell’auto in Jurassic Park (S.Spielberg, 1993)

 

 

La redazione di "Profondità di Campo" pubblica questo materiale senza scopi di lucro

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Elaborazione Immagini e testi  sono di D.MANTI (c) 2002

Profondità di Campo - (c) 2001- 2002

 

 

 

Immagini dal web tratte da: Rear Window – Blue Velvet – Psycho – They Live – Pull down the curtain, Suzie (1914) – Un chien Andalou -

Mabuse – Peeping Tom – It came from outer space – Film (S.Beckett) – Blow up – 2001: A space Odissey – A Clockwork Orange

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 Per la bibliografia degli autori citati, vedi la bibliografia della sezione cinesetting all'interno del sito

 

 

 

 



[1] Drei Abhändlungen zur Sexualtheorie, Deuticke, Leipzig-Wien, 1905; tr.it., ˝Tre saggi sulla sessualità˝ in L’interpretazione dei sogni. Psicopatologia della vita quotidiana. Tre saggi sulla sessualità, Newton Compton, Roma, 1992, pp.517-575.

[2]   Da questo film è assolutamente da citare per lo splendore perturbante della realizzazione (e una delle poche volte dove gli effetti speciali non appaiono nella loro devastante evidenza, essendo usati esclusivamente per ottenere risultati emozionali e invisibilmente istrionici) la scena della rivelazione del fantasma attraverso una frase che appare tramite le sgocciolature sullo specchio appannato, l’uso perturbante dei vapori e dei riflessi del pelo d’acqua che anticipano le visioni più tradizionalmente “cadaveriche”, rivelanti un omicidio commesso dal marito della protagonista anni prima. Zemeckis fa della citazione un’arte mai invadente (come può apparire invece quella di De Palma, che si compiace di avere sulla spalla il suo pappagallo – o avvoltoio? - hitchcockiano), capace al contempo di riportare alla memoria, tramite queste scene descritte, film quali il già citato Psycho, Il Corvo (1943) di Henri-Georges Clouzot, un'altra storia di “omicidio e cadavere in vasca”, La morte corre sul fiume (The Night of the hunter, 1955) di C.Laughton (la scena del cadavere perlustrato sott’acqua), Nanny la governante (1955) di  Seth Holt per l’omicidio (Avvenuto? Supposto?) della Davis.

[3]   Bazin, sul montaggio delle attrazioni: “[è] il rafforzamento del senso di un’immagine mediante l’accostamento di un’altra immagine che non appartiene necessariamente allo stesso avvenimento […] ma si può considerare assai vicina al suo principio la pratica molto più diffusa dell’ellissi, del paragone o della metafora […] (Bazin, A., op.cit.)